Estratto dell'articolo di Massimo Calandri per genova.repubblica.it
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Camallo, figlio di camallo, nipote di camallo. Migrante, gli diceva Faber. Genovese da esportazione. Francesco Baccini (1960), nato e cresciuto a San Teodoro, oggi vive sul lago di Como. Non ha nostalgia. "Solo del Genoa. E del pesto". Lontano da questa città - anche lui - si sente "genovesissimo". "Ma se ghe pensu è bella. Però la canta uno che sta morendo, dall'altra parte del mondo".
"Le donne di Genova portano gonne strette. Non ridono per niente. Pensano sia normale mettersi a letto e leggere il giornale". Questa l'ha scritta lei.
"Genova è una città immobile nella sua chiusura, nel modo di pensare. Divisa in caste, rioni. Antropologicamente. Uno di Albaro ha la faccia diversa di uno di via Bologna. Siamo refiosi, antipatici come un calcio nelle palle. È difficile fare anche le cose più semplici, tipo andare in bicicletta.
È tutto stretto, non c'è spazio. Però l'incazzatura si trasforma in un centro di energia: ecco perché tanti poeti, comici, cantautori. E se te ne vai, dopo aver fatto quella palestra ecco che i nuovi ostacoli sembrano una barzelletta. È la storia dei genovesi da esportazione, come me".
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Come Fabrizio De André: diventaste amici a Milano.
"Veniva a Genova solo per prendere il traghetto, e raggiungere la Sardegna. 'Noi siamo migranti' mi ripeteva. Come Colombo, nel mio Genova Blues".
Lei è nato in una traversa di via Bologna, San Teodoro.
"Da Rosa e Carlo, detto Lilla: mi ha lasciato il lavoro in porto come aveva fatto suo padre, immigrato col fratello a inizio secolo da Scandicci. Pensava di essere immortale: reduce da Mauthausen, la mattina prima di lavorare si faceva una doccia fredda.
Si è vaccinato quando c'era l'epidemìa di colera: astemio, ha preso la cirrosi epatica. Gli hanno dato 6 mesi, e sono stati quelli. Ma da bambino mi portava a Granarolo dove c'era l'erba, potevo tuffarmi. Altrimenti si giocava sulla strada, i maglioni a fare da pali: portiere. Gli osservatori delle squadre giravano per i quartieri a caccia di talenti. Un giorno un signore della Sampdoria bussa a casa nostra, e chiede di u figgiu du Lilla".
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Vuol dire che ha giocato portiere nella Samp?
"E Lilla veniva a vedermi giocare, furibondo di stare in mezzo ai doriani. Da piccolo mi aveva fatto il lavaggio del cervello, ma io non ero così appassionato per il Genoa. Poi una volta sono andato allo stadio, ho visto quei colori: e mi sono innamorato".
La sua non è stata una gioventù semplice.
"Mia mamma aveva perso una bimba di 3 anni, prima di me. Era molto apprensiva, ancora di più dopo la morte di papà. Un giorno mi ha visto zoppicare, mi ha trascinato al San Martino e tanto ha insistito che mi hanno fatto un esame approfondito: epifisiolisi, un problema alla testa del femore.
Sono rimasto un anno intero a letto, ne avevo 17, ingessato come una mummia. Sono aumentato 30 chili, perché lei e la nonna mi rimpinzavano. Ma ho ripreso a suonare il pianoforte. 'Non vorrai mica fare il cantante?', ha gridato, dalla cucina. Quasi per ripicca, ho scoperto che sapevo usare la voce. Per gioco, ho cominciato a scrivere canzoni".
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I primi concerti alla Panteca, in cima alla scalinata di via Balbi.
"Suonavo col cappello in testa, mi chiamavano Luigi perché assomigliavo a Tenco. Con le stesse canzoni, 5 anni dopo mi hanno dato la Targa Tenco. Al mattino lavoravo in porto: un anno da camallo, poi impiegato alla Fantozzi. Un giorno ho detto basta.
Me ne sono andato a Milano, dormivo in auto come un barbone, senza neppure i soldi per la pizza. Ma al pianoforte avevo qualcosa dire: potevo raccontare una vita da schifo. Perché l'arte è una sublimazione di ciò che ti manca. Penso ai ragazzi che fanno musica oggi, cos'hanno da raccontare: che sono stati in vacanza?".
Una sera, al 'Magia', dove suonavano anche Elio e le Storie Tese, tra il pubblico si siede De André.
"Era venuto a vedermi perché facevo capolino in un filmato mandato in onda sulla Rai da Vincenzo Mollica: 'Non può essere Tenco, è a colori', si era incuriosito Fabrizio. Dopo il concerto sono andato a cena da lui, è nata un'amicizia fortissima".
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I genovesi migranti, da esportazione.
"Gli ero molto legato. Come a Enzo Iannacci e a Freak Antoni degli Skiantos. 'Sto meglio con voi, che coi miei coetanei'. Ogni tanto a casa di Faber veniva Paolo Villaggio: intelligente, sarcastico, stimolante. Sampdoriano, purtroppo: erano gli anni del loro scudetto, ma anche del nostro quarto posto. Si provocavano in continuazione".
Quanto vi ha fatto soffrire, il Grifone.
"Mi ricordo un derby, loro con Vialli e Mancini, noi con Eloi: 20 minuti ed era già tutto finito. Ma non abbiamo mai mollato. Pippo Spagnolo, il più grande dei tifosi, mi telefonava: 'Ragazzo, sei convocato'. Quella volta a Marassi mi ha presentato un anestesista del San Raffaele: Zangrillo. E poi il mio amico Carlo Pernat, rossoblù e 'genovese da esportazione': a cent'anni sarà ancora il giro per il mondo, con le sue moto. Quest'anno, che festa. La vita è un'altalena: lasciatemi sognare il Genoa in Champions e la Sampdoria in B. Mi fa piacere che oggi i blucerchiati soffrano un po', ma non che spariscano: sarebbe un peccato, per la città"
BACCINI PAOLO BELLI
Questa Genova le piace?
"Negli anni Settanta era di una tristezza incredibile: grigia, tesa. Ha cominciato a rinascere con le Colombiane, nel '92. Col sindaco Bucci ho parlato parecchio, mi sembra intelligente. Toti direi che è simpatico, come persona. Ma con la politica ho chiuso nel secolo scorso".
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