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    “LO SCUDETTO CON MARADONA? NON VINCEMMO SOLO PER LUI” - OTTAVIO BIANCHI, ALLENATORE DEL NAPOLI CHE CONQUISTO' PER LA PRIMA VOLTA IL TRICOLORE: “A DIEGO DISSI CHE RISCHIAVA DI FINIRE COME MONZÓN” (IL PUGILE ARGENTINO, FINITO IN CARCERE PER L'OMICIDIO DELLA TERZA MOGLIE, CHE MORÌ A 52 ANNI IN UN INCIDENTE, NDR), LUI MI RISPOSE: ‘VOGLIO VIVERE LA VITA CON IL PIEDE SULL'ACCELERATORE’. ALLORA MI RESI CONTO CHE NON C'ERA NIENTE DA FARE” - "IO UN DURO? UN LUOGO COMUNE. LA MIA UNA CARRIERA DI SUCCESSO? NO, IL SUCCESSO È DI CHI…”


     
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    Cesare Zapperi per il Corriere della Sera - Estratti

     

    DIEGO ARMANDO MARADONA OTTAVIO BIANCHI DIEGO ARMANDO MARADONA OTTAVIO BIANCHI

    Ha giocato con i più grandi (da Omar Sivori a Gianni Rivera). Ha allenato i più grandi (da Diego Maradona a Careca). Ha avuto come presidenti i più grandi (da Corrado Ferlaino a Massimo Moratti). Eppure, a 17 anni...

    «Avevo appena esordito in serie B con il Brescia. Subii un gravissimo infortunio al ginocchio (lesione del crociato). I medici mi dissero che non avrei più camminato».

     

    Ottavio Bianchi, oggi che sta per festeggiare gli 80 anni (il 6 ottobre), come ricorda quel giorno?

    «Ha condizionato la mia vita, mi ha indurito. Rimasi fermo per due anni. Quando passi tanto tempo fra ospedali e sedute di durissima rieducazione (non esistevano interventi chirurgici allora) non puoi non uscirne segnato».

     

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    Ma la sua è stata una carriera di successo.

    «No, il successo è di chi scopre la penicillina, di chi cura le malattie. Io sono una persona normale che ha cercato di fare al meglio il suo lavoro, ligio con sé stesso e con gli altri. In gergo calcistico, mi sento un buon mediano».

    L'hanno sempre descritto come un duro.

    «Uno stupido luogo comune. Sono stato cresciuto nella cultura del lavoro. Il motto del mio primo allenatore, Renato Gei, era: «laurà, laurà, laurà» (lavorare, lavorare, lavorare, ndr ). A questo sono sempre stato fedele, anche se forse avrei potuto essere meno intransigente con me stesso».

     

    (...)

    Lei e Napoli siete il ghiaccio e il fuoco...

    «Sono sempre stato accettato come sono e i napoletani non hanno mai pensato di cambiarmi. Ricordo, da giocatore, il primo incontro con Achille Lauro. Mi disse: “Guaglio', m'avevano detto che tenevi la capa tosta”».

     

    Nessun problema?

    «Napoli trasmette la gioia di vivere. Basta saper osservare e ascoltare, è un insegnamento continuo. L'importante è non farsi assorbire».

    È diventato superstizioso.

    «Eccomi. Magari non funziona, ma è sempre bene esserlo. Maschio non fa».

    E dire che lei, da allenatore, non ci voleva andare.

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    «Allenavo il Como quando mi chiamò Italo Allodi. Gli dissi di no perché ritenevo impossibile vincere qualcosa. Avevo conosciuto l'ambiente da calciatore. Giocavo con Zoff, Sivori, Altafini, eppure non vincemmo niente perché non c'era la mentalità del lavoro duro. Dopo una vittoria scoppiava la festa...».

    Però cambiò idea.

    «Sì, dissi: vengo ma si fa come dico io. Indossai l'elmetto e iniziò l'avventura».

    Non è andata malissimo: uno scudetto, una coppa Uefa e una Coppa Italia.

    «Lo scudetto è stata una gioia incontenibile, con importanti risvolti sociali. Ma abbiamo ottenuto quello che meritavamo, niente di più».

    Con Maradona in canna.

    «Sì, ma non vinceremo lo scudetto solo per lui. Sono più importanti il collettivo e l'organizzazione di gioco».

     

    Com'era il suo rapporto con l'asso argentino?

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    «Per me contava solo il calciatore ed era un talento straordinario. Abbiamo avuto incontri e incontri, ma mi ha sempre rispettato».

     

    Ha fatto una triste fine.

    «Avrebbe dovuto fare una vita più regolare, evitare certe frequentazioni. Un giorno gli dissi che avrebbe fatto la fine di un pugile allo sbando.

    “Vuoi proprio finire come Monzón?” (il pugile argentino che morì a 52 anni in un incidente stradale mentre tornava in carcere dove scontava la pena per l'omicidio della terza moglie, ndr ). “Lei ha ragione, mister”, mi rispose, “ma io voglio vivere la vita con il piede che spinge sull'acceleratore” Allora mi resi conto che non c'era niente da fare».

     

    Tutti ricordano lo scudetto, ma lei va quasi più orgoglioso dei risultati ottenuti con Atalanta, Como e Avellino.

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    «In provincia mi hanno solo affidato situazioni complicate ma ho ottenuto grandissime soddisfazioni e lanciato giocatori straordinari. Alcuni nomi? Matteoli, Fusi, Donadoni, Diaz, De Napoli...».

    Lei ha anche giocato al fianco di grandi campioni. Ce li descrivo con un flash.

    «Gianni Rivera: lo stile in persona. Dino Zoff: un uomo verticale. Omar Sivori: genio e sregolatezza. Gigi Riva: un campione di umiltà».

     

    E i suoi presidenti?

    «Corrado Ferlaino (Napoli): un uomo dalle intuizioni geniali. Dino Viola (Roma): mi ha insegnato a fare il dirigente. Ernesto Pellegrini (Inter): una persona leale. Massimo Moratti (Inter): mi ha inflitto il primo e unico esonero della mia carriera. Ma era giovane e schiacciato dal peso di cotanto padre. Ho nel cuore anche Achille Bortolotti (Atalanta) Romano Freddi (Mantova) e Gerardo Pelosi (Avellino)».

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    Ha lasciato il calcio da vent'anni, ha nostalgia?

    «Nessuna. Non sarei adatto. La mia educazione era completamente diversa. Dovrei ritornare a scuola».

    Non si può più applicare il motto del suo allenatore.

    «No, oggi conta più apparire che lavorare. La comunicazione è tutto. I giocatori sono aziende. Il calcio è lo specchio della società in cui viviamo».

     

    È un'attività solista?

    «Di sport vedo gran poco.

     

     

    (…)

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