Estratto della prefazione di Gabriele Romagnoli al libro Pasolini- il mio calcio pubblicata da La Repubblica
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Pier Paolo Pasolini e il calcio: storia di un amore grande, insolito e chiacchierato. Come ogni cosa sua, un po' fuori dal tempo, sempre avanti e di lato. Mai sopra: dentro. L' intellettuale in campo. Con lo sguardo partecipe, il sopracciglio disteso, il taccuino aperto.
Ecco, dimenticatevi il saggio di Eco su Mike Bongiorno del 1961. Pasolini non si siede per osservare, si mischia per capire. Dirà che il calcio è un linguaggio, i giocatori ne sono i cifratori e gli spettatori, i tifosi, i decifratori. E lui? In che ruolo si è espresso?
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Questi nove articoli, sei di suo pugno e tre interviste, usciti tra il 1956 e il 1975, sono una piccola grande antologia, un discorso aperto. Al termine del Reportage sul Dio , uscito sul Giorno nel 1963, Pasolini suggerì di lasciare il personaggio «sulla vetta nell' illusione che tutto ciò gli spetti, che sia duraturo ». E noi ci congederemo da lui così, lasciandolo interprete e profeta, calciatore e metacalciatore, fonema e traduttore di quel discorso amoroso che è il gioco.
pasolini capello
(...) Come i fuoriclasse che esprime, il calcio ha una natura difficile da cogliere, fermare, addomesticare. Scorrendo le pagine di Pasolini troviamo queste possibili definizioni: «È uno sport più un gioco», «è un sistema di segni, quindi un linguaggio», «è un concetto », «è un oppiaceo terapeutico», «è una rappresentazione sacra, l' ultimo grande rito». Tutte queste cose si possono tenere insieme per accumulazione? La risposta è sì, ma in un solo luogo: lo sguardo di Pasolini.
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Un diverso occhio non coglierebbe l' una o l' altra e sarebbe inutile insistere. C' è chi percepisce il gioco, chi afferra il concetto, chi partecipa al rito. Solo l' esperienza multiforme di Pasolini poteva cogliere tutti gli aspetti in un sol colpo. È come se davanti a un solido qualcuno ne vedesse alcune facce e lui l' intera complessità. La sua osservazione percorre ogni lato. A cominciare dal campo, inevitabilmente di periferia, dove scende come giocatore.
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Molte foto ce lo restituiscono con una maglia semplice, attillata, le maniche lunghe, i risvolti una riga controcolorata, pantaloncini corti, calzettoni abbassati alle caviglie. È un' ala destra e questo già vuol dire: mettersi di lato, lavorare di fantasia, cercare il senso per porgerlo ad altri, vanificarsi, infine farsi del male, annientarsi. Non ha fatto in tempo a riflettere sul potenziale autodistruttivo dell' ala destra, dilettante o professionista, da George Best a Gigi Meroni. E sul suo progressivo imborghesimento dopo gli anni Ottanta: con Causio, Sala, Conti sono finiti la poesia, il dribbling, la bestemmia contro la liturgia preconfezionata dall' allenatore. Con il dovuto rispetto, è bene gli sia stata risparmiata la linearità di Candreva. Ma Pasolini conosceva bene anche altri due ambienti fondamentali: il bar e lo stadio. Il primo si è dissolto, ma era il forum di quei tempi, la chat dove oggi si celebrano risse virtuali. Lì si concepivano i neologismi e i soprannomi.
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Scaltri giornalisti li riportavano come invenzioni proprie, ma erano gli anonimi del sublime accanto alla cassa dei gelati a partorirle. (...) Ogni frase ha la sua parola chiave che la illumina. Al punto che "parola chiave" (ormai universalmente "password") è diventata la combinazione per le vere casseforti delle nostre esistenze.
In un fraseggio a cui partecipano ventidue "podemi" la parola chiave è il campione, quello che svia il flusso del discorso, lo accende di nuovo e imprevisto significato. Mai per inciso, mai avverbio, giunge per solito al fondo, come conclusione. Il portiere è uno stentato avvio o una mancanza finale provocata dall' assenza d' intervento.
Gli altri son mediani costruttori, sfarfallanti terzini, aggettivanti mezze ali. Il campione è il fine/la fine del discorso. Se riuscita, in forma di gol.
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Pasolini ne ricostruisce il linguaggio e la natura. Bisogna ricordarsi che per lui i calciatori parlano con i piedi (come per Soriano con i piedi pensavano).
Quando porterà il suo microfono davanti alle loro labbra nei famosi Comizi d' amore sarà per chiedere ai giocatori del Bologna delle loro abitudini sessuali, non certo della disposizione a giocare in attacco o di rimessa. Di fronte a Giacomo Bulgarelli sembrò avere una visione. «Come avesse incontrato Gesù Cristo», racconterà Sergio Citti, uno dei suoi attori di fiducia. Gli propose addirittura di recitare per lui nei Racconti di Canterbury . Invano. Gli occhi cerulei di Bulgarelli erano fissi sul pallone. Pasolini vedeva altro e altro sentiva. Per lui il capitano del Bologna era letteratura pura.
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Scriverà nel 1971 che «Bulgarelli gioca un calcio in prosa: è un "prosatore realista"». Così come Rivera è un «prosatore poetico» e Riva un «poeta realista». La poesia si connette invariabilmente al gol: è «invenzione, sovversione del codice, folgorazione ». Il campione è colui che ha questa capacità: illuminato dall' alto, crea, strappa, rimodella, riscrive la storia a modo suo. Questa sua grandezza gli è tanto familiare quanto incontrollabile. È lei a possederlo, non viceversa.
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Potrebbe apparire una visione idealizzata, non fosse che a Pasolini è chiaro il percorso umano, fin troppo umano, il terriccio con cui è composta e da cui prende vita questa creatura destinata al sovrumano per elezione popolare. Si forgia nelle periferie di tutto il mondo, è fatta della materia dei sogni.
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Quali? I sogni di riscatto di tutta quella «gioventù incastrata in una piccola sacca del destino » mossa, sentite, annotate, ricordate questa frase: «da quell' ideale, tutto sommato televisivo, della felicità sessuale». Era il 1963 e già Pasolini individuava le caratteristiche non dei re, ma dei tronisti del calcio.
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