1. UN PAESE A PEZZI: SULLA CONDANNA IN VIA DEFINITIVA AI QUATTRO AGENTI PER MORTE DEL POVERO FEDERICO ALDROVANDI, VA IN FRANTUMI ANCHE IL CORPO DELLA POLIZIA 2. LA GOCCIA (DI SANGUE) CHE HA FATTO TRABOCCARE IL VASO: LO SCONTRO TRA IL SINDACATO AUTONOMO DI POLIZIA (SAP) CHE HA APPLAUDITO POLEMICAMENTI GLI AGENTI CONDANNATI E IL CAPO DELLA POLIZIA ALESSANDRO PANSA CHE, AL PARI DI NAPOLITANO E ALFANO, HA DEFINITO QUEGLI APPLAUSI DELLA SAP “GESTO GRAVE E INACCETTABILE”

1. ALDROVANDI, MADRE: "ASSASSINI, VIA LA DIVISA". E' SCONTRO TRA SINDACATI POLIZIA SU PANSA
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/30/aldrovandi-madre-via-divisa-ad-assassini-e-scontro-tra-sindacati-polizia-su-pansa/968502/

Nel giorno in cui Patrizia Moretti raccoglie la solidarietà delle istituzioni, finanche del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo l'ovazione che ieri il Sindacato autonomo di polizia (Sap) riunito a congresso ha tributato ai quattro agenti condannati in via definitiva per la morte di suo figlio Federico Aldrovandi, scoppia la guerra tra le sigle sindacali.

Al centro della contesa le parole che ieri, giorno dell'applauso, il capo della polizia Alessandro Pansa ha indirizzato alla mamma di Federico definendo come "grave" e "inaccettabile" il comportamento degli agenti del Sap, secondo sindacato per rappresentanza. Il loro segretario Gianni Tonelli chiede a Pansa di "ricordare il proprio ruolo di capo della polizia" e, rivendicando quanto accaduto ieri, chiede la revisione del processo".

Dalla parte del Sap anche la Confederazione sindacale autonoma di polizia (Consap), settima come rappresentanza che a Pansa dice: "Non può essere il nostro capo: quello che ha detto segna la distanza fra lui e gli operatori". Dall'altra parte difendono il prefetto sia il Siulp, primo sindacato dei poliziotti - che esprime "vicinanza al capo della polizia perché null'altro ha fatto se non confermare la nostra intima vocazione democratica" - che il Silp Cgil: "Ci dissociamo dal gesto dei colleghi del Sap".

Anche il ministro dell'Interno, Angelino Alfano, chiude la porta in faccia ai poliziotti-sindacalisti del Sap. Doveva incontrarli il prossimo 6 maggio al Viminale, ma non lo farà più. Il loro, dice, è stato "un gesto gravissimo e inaccettabile. Uomini in divisa, che rappresentano lo Stato, non possono disconoscere il senso di una sentenza passata in giudicato".

Parole dure che si levano da tutte le parti politiche e dai vertici istituzionali, mentre Patrizia Moretti, la madre di Federico - incontrata oggi dallo stesso Alfano, dai presidenti di Camera e Senato e dal capo della Polizia - chiede "provvedimenti concreti, perché la solidarietà fine a se stessa non basta". Quindi, "si tolga la divisa agli agenti condannati e si introduca nel nostro ordinamento il reato di tortura", chiede la madre in conferenza stampa al Senato.

Ma il segretario del Sap non arretra e chiede la revisione del processo: "Ho applaudito anche io, non sono loro i colpevoli", dice Gianni Tonelli. "Quegli applausi provocano rabbia e sdegno", afferma il presidente del Senato Pietro Grasso, che da 30 anni vive circondato da agenti di polizia come scorta e che prova dunque "una rabbia ancora maggiore, perché so che quell'applauso getta discredito anche su chi porta con onestà, impegno e sacrificio quella divisa".

"Siamo tutti scioccati per quanto accaduto, siamo costernati", ha detto a Patrizia Moretti la presidente della Camera Laura Boldrini, che ha auspicato - come hanno fatto oggi diversi parlamentari, specie del Pd, e la stessa madre del ragazzo ucciso - la rapida conclusione dell'esame del provvedimento che introduce il reato di tortura "perché quel testo serve alla democrazia".

Condanna trasversale agli applausi di ieri arriva da tutte le forze politiche, anche se con sfumature e toni diversi ("Io sto con i poliziotti e con chiunque rischia la vita per difendere i cittadini", ha detto Matteo Salvini, della Lega, mentre dal centrodestra - dal deputato di Fratelli d'Italia Ignazio La Russa e dal vicepresidente del Senato di Forza Italia Maurizio Gasparri, entrambi in prima fila all'assemblea di ieri - c'è chi parla di un episodio frutto della "rabbia" e della "frustrazione" degli uomini in divisa).

Parole forti arrivano anche dagli stessi poliziotti iscritti al Sap. C'è chi, scrivendo sulla pagina Facebook del sindacato, annuncia che strapperà la tessera. E sono molti gli agenti che, sempre via web, usano parole dure di censura: "disgusto totale", "vergogna", "uno schifo".

Il capo della polizia oggi ha "condiviso lo sdegno" con la madre di Federico. "Mi ha detto - racconta la donna - di avere ‘le mani legate' perché la legge non consente alle commissioni disciplinari di adottare provvedimenti diversi" dalla sospensione temporanea. Mentre lei, venuta a Roma per chiedere alla politica, e non solo, "azioni concrete", avrebbe voluto che venissero cacciati per sempre dalla polizia.

Invece, a gennaio i quattro agenti sono rientrati in servizio senza che la madre di Federico potesse conoscerne le motivazioni. E nonostante la Cassazione, nel settembre 2012, avesse definito il loro comportamento quella notte come "sproporzionatamente violento", il ministero dell'Interno aveva preferito non commentare il reintegro.

Di fronte all'ondata di critiche, però, il vertice del Sap mantiene la posizione. "Non è il fermo di polizia la causa della morte di Aldrovandi e i colleghi li ho applauditi anche io. Sono stati condannati per un errore giudiziario e cerchiamo una revisione del processo", ha detto il neo segretario Tonelli. "Sono il cattivo del momento", dice. Ma questo non sembra preoccuparlo più di tanto.

2. ALFANO MINISTRO LATITANTE: VIMINALE IN MANO ALLA LOBBY DEI PREFETTI
Paolo Bracalini per Il Giornale

‘'Il ministero è in mano alla lobby dei prefetti», ti sussurrano nei corridoi del Viminale. «Il ministro? Lo vediamo poco...». È in quei vuoti di comando, con Alfano troppo preso dal suo ruolo di leader di Ncd, che il timone passa in altre mani: dal ministro assente ai «ministri ombra» del Viminale, i mandarini che al ministero dell'Interno vestono una divisa precisa, quella dei prefetti.

Chi regge il Viminale è Luciana Morlese, prefetto, nominata nel 2013 da Alfano capo di gabinetto, un ruolo che al ministero dell'Interno è ancora più centrale che altrove. La Morlese è anche a capo delle politiche del personale civile e responsabile per le risorse strumentali e finanziarie del Viminale, altro ruolo di grande potere. Sotto di sé, dalla vice fino ai dirigenti dei dipartimenti, una interminabile fila di prefetti e viceprefetti.

Se la Morlese deve ad Alfano la promozione, il suo rapporto col ministro va letto a ritroso. Dalla vicinanza cioè con Giuseppe Procaccini, ex capo di gabinetto dimessosi in rotta totale con Alfano dopo il caso kazako, il rimpatrio della moglie e della figlia del dissidente Ablyazov avvenuti con un blitz all'insaputa del ministro. Così almeno spiegò Alfano, scaricando le responsabilità proprio su Procaccini, che poco dopo lascerà l'incarico «nauseato e ingiustamente offeso» dallo scaricabarile.

«Alfano sapeva tutto, mi disse che quel caso minacciava la sicurezza nazionale e ordinò che incontrassi l'ambasciatore kazako» spiegherà mesi dopo il capro espiatorio Procaccini, ormai in pensione. Quella vicenda non ha messo in gran luce Alfano agli occhi dei funzionari del Viminale, e della «lobby dei prefetti» che lo guida.
Un ministero molto speciale, attivo 24 ore su 24, strutturato per le emergenze.

Una supercar che richiede un pilota adeguato alle prestazioni, una catena di comando basata sulla fiducia, sull'affiatamento. E sulla presenza costante del ministro. Scajola racconta di continue riunioni, dal mattino alle 8 fino a tarda sera. Maroni, che ancora viene salutato con un «buongiorno ministro» quando passa da lì, è riuscito a conquistarsi la fiducia con un lavoro di squadra, sia con i vertici del ministero (lo stesso Procaccini, chiamato per primo dall'ex ministro leghista) che con l'allora capo della polizia Antonio Manganelli (con cui si creò anche una solida amicizia, «abbiamo i maroni e i manganelli, siamo perfetti insieme» scherzavano).

Alfano invece deve guidare il Ncd, partito appena nato e alle prese con la sua prima campagna elettorale. Un impegno politico gravoso, dunque, che toglie tempo ed energie al lavoro nel ministero. «Andate a vedere dov'era Alfano mentre la Shalabayeva veniva rispedita in Kazakhstan» si sfogava un funzionario di polizia in quei giorni. E dov'era Alfano? Impegnato in un vertice con Letta, nelle vesti di vicepremier.

E poco dopo in una riunione del Pdl, in qualità di suo segretario. E qualche ora dopo con l'ambasciatore colombiano, stavolta come ministro. Ma nel posto sbagliato.
Non è solo la presenza fisica. Chi conosce bene i meccanismi del Viminale spiega che il ministro, in quel particolare ruolo, deve tenere un profilo molto riservato, istituzionale. Difficilmente compatibile con la leadership di un movimento politico, che porta, al contrario, a esporsi.

Altrimenti, come nella gestione degli sbarchi, o nei cortei che si trasformano in raid urbani (come l'ultimo a Roma) la macchina va in panne. Poi i poliziotti, che lamentano uno scarso dialogo con Alfano, mentre le assunzioni di vincitori di concorso sono bloccate (colpa dei funzionari, ovviamente...), gli stipendi fermi, i tagli in arrivo, e la riforma della legge 121 sulla polizia - rilanciata da Maroni - chiusa in un cassetto da Alfano.

 

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