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Rocco Cotroneo per www.corriere.it
Il bunker della resistenza finale è una brutta palazzina di quattro piani circondata da altro cemento, nella periferia di una delle più sterminate metropoli del mondo. Ma la sua insegna è un pezzo di storia del Brasile, ed è qui che Lula decide di ignorare i giudici e rendere drammatico il suo ultimo giorno di libertà.
La sede del sindacato metalmeccanici di San Paolo è la culla della storia politica dell’ex tornitore che ha perso un dito sotto una pressa, poi ha sfidato la dittatura da leader operaio e molti anni dopo è diventato presidente del suo Paese.
È circondata da militanti con le bandiere rosse, oltre che giornalisti e fotografi. Sono poche migliaia i fedelissimi, non il cordone umano che potrebbe proteggerlo dalla «giustizia ingiusta e serva delle élites», come nella narrativa di parte di questa lunga vicenda giudiziaria. Non le decine di milioni di brasiliani che lo hanno votato in cinque occasioni. Ma in qualche modo la scenografia ottiene il suo scopo: a fronte di una persecuzione c’è un martire rinchiuso in un luogo simbolico di lotta.
Lula dunque non si è consegnato spontaneamente entro le 17 ore locali di ieri (le 22 in Italia), come il giudice Sergio Moro gli aveva suggerito. Avrebbe dovuto presentarsi a Curitiba, sede dell’inchiesta giudiziaria che l’ha travolto, e in cambio ottenere un trattamento di favore.
Niente manette e telecamere, e come cella una specie di ufficio al quarto piano della sede della Polizia federale: 15 metri quadrati, con bagno privato, letto e un tavolo di lavoro. Era un dormitorio per agenti in trasferta, non ci sono sbarre: il giudice Moro ha ammesso l’eccezione in considerazione del ruolo svolto in passato dal leader brasiliano e chiesto alla polizia di preparare una stanza speciale.
Lula prigioniero avrà diritto a due ore d’aria al giorno e una visita di familiari e amici per settimana. Nessun contatto con gli altri detenuti, come il suo ex ministro dell’Economia, Antonio Palocci, o il costruttore che gli aveva regalato il famoso attico al mare, Leo Pinheiro. La pena da scontare è lunga, 12 anni e un mese, anche se sulla durata effettiva della detenzione di Lula fioccano previsioni di ogni tipo. Anche poche settimane, sostiene qualcuno, conoscendo i meandri del sistema giudiziario brasiliano.
Saputo dell’ordine di arresto, Lula ha scelto di passare la notte tra giovedì e ieri nella sede del sindacato, con amici e avvocati, dormendo poche ore nella stanza della presidenza senza tornare a casa. Poi è cominciata una giornata lunghissima. Un elicottero della tv ronzava sulla palazzina, i manifestanti fuori, i giornalisti in maratone davanti alle telecamere e alcuni momenti curiosi, come l’arrivo di un furgone con casse di birra, carne e sacchi di carbonella, come per ogni «churrasco» (grigliata) che si rispetti. In strada due camion-palco, dai quali militanti del partito e dei movimenti sociali si alternano a parlare per ore e ore, strappando applausi via via più annoiati.
Nel corso della giornata, la polizia concede a Lula di presentarsi, sempre entro le 17, nella sede di San Paolo, da dove poi un aereo l’avrebbe immediatamente portato a Curitiba. Mentre gli avvocati giocavano le ultime disperate carte per trovare un giudice di una istanza più alta in grado di sospendere la detenzione: due le nuove istanze, entrambe respinte.
Passato l’ultimatum, senza alcun segnale che Lula intendesse lasciare la sede del sindacato, la polizia ha fatto sapere di escludere un blitz per andarlo a prendere con la forza. Troppi rischi di scontri con i manifestanti, un eccesso di drammaticità evitabile. Ma la previsione ieri sera era che la consegna fosse ormai imminente, secondo un accordo già raggiunto tra polizia e legali di Lula.
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