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Malcom Pagani per Il Fatto
L'ultimo giapponese è in zona. L'hanno sentito grugnire di dolore, incazzato come un cinghiale. Ieri sera, l'editore Gianni Aringoli, l'inventore del premio Capalbio, era ai piedi della rocca. Dove tutto cominciò nel â97, per finire nel 2011 e risorgere un'estate più tardi, sotto altre insegne, in una porcilaia di sputtanamenti "Aringoli è insolvente, è in fuga, ci deve migliaia di euro", litigi e insulti tra letterati e trattori.
Avvistato a leggere l'ultima pagina del libro, Aringoli meditava vendetta. Occupare la piazza nel pomeriggio di oggi. Una volta sciamati gli "usurpatori" circondati dai flash. I Pulitzer indiani, i giornalisti fedifraghi, le fattucchiere bruciate allo Strega, i giovani- vecchi postpasoliniani come Trevi e quelli "de sinistra" come Renzi, l'apostolo di nome Matteo folgorato sulla via di Arcore.
Tutti gli altri rottamatori del sogno, a iniziare dal sindaco Luigi Bellumori del Pd, reo di avergli negato il patrocinio e cambiato nome al Premio. Gli amici di un tempo recente, che ora lo evitano con commiserata distanza. Profittando del caldo e della distrazione postprandiale, Aringoli progettava forse di incatenarsi. Urlare. Senza minacciare querele di fronte alle contestazioni ("ci pensano i miei avvocati"), etichettare i tassisti creditori come "pazzi", chiamare "estorsore" un albergatore alla ricerca di undicimila euro smarriti nei ritardi.
Situazionismo puro. Simile alla tentata moltiplicazione dei pani, dei pesci e delle mail. Una ad ogni singolo premiato dai rivali, per proporre una targa alternativa e creare confusione. Un cavallo di troia rimandato nel recinto della gag "no, grazie", come fastidiosa pubblicità , spam, catena di Sant'Antonio. Un uomo solo, Aringoli. E in pericolo, sosteneva ironica Mirella Serri, ex giurata permanente dell'invenzione aringoliana, passata armi e bagagli al campo avverso. Quello del premio vecchio col nome nuovo. Sempre in Piazza Magenta, ma senza Aringoli.
Serri, sapida, riteneva impossibile il flash mob dell'ex patron perché per oggi, domenica 26 agosto, la stessa era stata "appaltata" dal rapidissimo sindaco Bellumori a un gruppo di temibili butteri. "E non credo che gli agricoltori locali - diversi dal brigante Domenico Tiburzi, Robin Hood indigeno con aura da santo antitetica alla fedina penale, ma poco inclini ai verbosi distinguo - lo avrebbero accolto tra gli applausi". Ieri sera andavano ad altri organizzatori. Per tre lustri, ci pensò Aringoli. Officiando curiale la consegna delle targhe, con profluvio di auto blu calate da Roma.
Tutto finito adesso. Troppe ambiguità . Troppi soldi mancanti. Una pubblicità fastidiosa per un borgo che da tempo non era più "genius loci" della sinistra predicatrice né l'allevamento di zanzare dei '70 descritto da Nuvola Nuvoletti, "Capalbio, un postaccio. So' tutti intellettuali e comunisti, morti de fame. Ce vanno pecché le case te le tirano dietro ppe' du' mele e 'n zacco de patate".
Sobrietà dopo un ventennio di feste bucoliche col potere in trasferta permanente. Aringoli non la garantiva. Sulla mezzadria del neo premio proposto agli altri dall'antico latifondista, Serri è laconica: "Aringoli non ha avuto nessuna fantasia nel trovare altri nomi, ma ricevere due premi nello stesso luogo di per sé non sarebbe un delitto. Non è potuto succedere perché di fronte a domande semplici: âDove, come, quando ce lo daresti?', Gianni ha opposto la solita vaghezza".
Un marchio di fabbrica. Un'atonica minimizzazione in salsa dietro-logica di ogni singola richiesta di chiarimenti. Economica e non. Con la Copisteria di Albinia, come con il premio Nobel. Attitudine democratica, che non gli ha consigliato di seguire le regole previste per richiedere l'uso della piazza - "Serve una richiesta a monte e una fidejussione" - e ha permesso invece al sindaco di attenersi alle regole.
Prima di decidersi, recidere il cordone, mandare a fare in culo il procrastinante Aringoli, il primo cittadino Bellumori aveva aspettato due mesi. Sessanta giorni utili per tenere quiete le "belve" che chiedevano la legittima restituzione del maltolto e diradare i timori: "Passerò agosto sulla graticola, mi massacreranno". Pregare che le lamentele di una vasta genìa di creditori, tutte univocamente rivolte alla gestione della Fondazione Epokè di Aringoli, fossero tacitate da un bonifico.
Poi, definitivamente introiettato il languore dei conti correnti e ascoltata la pallida versione del patron: "à un complotto, mi vogliono scippare la mia invenzione, il sindaco è un egotico presenzialista, furibondo per non aver trovato posto in prima fila nell'edizione 2011", ha reagito come da queste parti, infranti patti e l'amicizia lunga, si usa fare. "Cialtrone". O anche, in un'altra declinazione del medesimo messaggio: "Aringoli non può fare il padrone a casa nostra, se proprio vuole indire il premio, chiedesse ospitalità in un qualunque giardino a sua scelta".
Ballavano decine di migliaia di euro. Non li vedrà nessuno e così, messi alle strette, via di putsch. Di controrivoluzione. Di occupazione militare. Il golpetto alla maremmana, storia di pranzi non pagati, d'amore e di coltello, nell'estate che tramonta, ha incontrato inattesi cantori.
Più a Roma che in Toscana. Pierluigi Battista, fraterno amico di Paolo Mieli, già ex compagno di classe di Aringoli al Liceo Tasso di Roma, interessatissimo. L'isola dei famosi, l'Ultima spiaggia in faccia alla ciminiera di Montalto, indifferente. Accanto alle foto appaiate di Napolitano, Cecchi Gori e Pecoraro Scanio, ieri maledivano il Biogas e ordinavano un caffè macchiato.
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