TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA ANDATE A…
DAGOREPORT
C’è grossa agitazione tra i grandi fondi internazionali. Raccontano che la Milano degli affari negli ultimi tempi sia testimone di riunioni informali tra i rappresentati dei più grandi fondi infrastrutturali del mondo, come Blackstone, Macquarie, Kkr, che investono in beni e servizi pubblici come l'energia e i trasporti, e quei “mostri” della finanza che investono in banche e grandi aziende come BlackRock, Fidelity, Pinko, etc.
All’inizio del governo Meloni (2022) i grandi poteri finanziari internazionali hanno apprezzato la stabilità economica e politica Italiana e hanno doviziosamente investito nelle società del Bel Paese, ma due anni dopo si ritrovano davanti il crescente statalismo messo in opera dai Fazzolari di Palazzo Chigi, con la Draghetta di ieri, che pigolava consigli a “Mariopio” Draghi, trasformatasi ben presto nella Ducetta di oggi.
E la domanda che è sorta spontanea tra gli esponenti italiani dei fondi internazionali è: ma con questo governo che ha abbracciato una politica economica e finanziaria di stampo statalista, dov’è il libero mercato? Conclusione di Lor Signori: ci conviene ancora mantenere i nostri investimenti miliardari in Italia?
Il fondo americano Kkr, ad esempio, che dopo aver acquisito la Rete unica da Tim tra gli applausi di Palazzo Chigi, ora si ritrova in preda a un’incazzatura suprema: vuoi vedere che ci hanno rifilato una “sòla”, l'immancabile “italian job”? Non solo per il possibile accordo della Statista della Garbatella con Elon Musk e i suoi satelliti a bassa quota di Starlink che avrebbe ripercussioni negative sui bilanci delle varie telecom (Tim, Vodafone, Wind, etc), con conseguente crisi di ricavi per la Rete di Kkr.
GIANCARLO GIORGETTI - FOTO LAPRESSE
Il rospo, pronto sul piatto, che dovrebbe ingoiare il fondo Usa sono i miliardi di profondo rosso di Open Fiber che, secondo i piani del governo, dovrebbe unirsi in matrimonio a Fibercop, di cui Kkr controlla il 37,8% con una presenza diretta del Mef (16%). Malgrado le tante smentite, molti analisti scommettono che Kkr aspetti solo che Open Fiber vada a gambe all’aria per poi prenderla a zero euro.
‘Sto guazzabuglio di miliardi da cacciare vede al centro il Mef di Giorgetti con il suo braccio operativo Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) che controlla Open Fiber al 60%, in tandem con il fondo australiano Macquarie (40%), mantenendo nel contempo una quota di minoranza (9,81%) anche in Tim. Sul rospo Open Fiber, Kkr ha puntato seccamente i piedi e Cdp è stata costretta, per non portare i libri in tribunale, a intervenire presso le banche creditrici per ristrutturare il debito, ancora per un anno, della fallimentare Open Fiber.
elon musk giorgia meloni vignetta by osho
Un altro motivo di scontento (eufemismo) arriva da Autostrade per l'Italia (ASPI), che ha come azionisti Cdp (51%) e i due colossi dell'asset management, Blackstone e Macquaire, con il 24,5% ciascuno. I quali hanno seccamente respinto al mittente le richieste dei fazzolari di Palazzo Chigi riguardante un possibile cambio di proprietà con l’entrata nel capitale di un socio industriale come l’ASTM della famiglia Gavio.
L AZIONARIATO DI AUTOSTRADE PER L ITALIA
Non solo: il rappresentante di Blackstone in Italia, Andrea Valeri, batte cassa: vuole più dividendi di quanto già incassa dallo Stato. Il fondo americano non è solo azionista forte di Aspi: nello stesso tempo lo ritroviamo col 37,8% nell’ex benettoniana Atlantia, ora Mundy’s, e nelle autostrade spagnole dove incassa dividendi più alti.
Stessa insoddisfazione, ma moltiplicata per due, per l’altro socio di Aspi, il fondo australiano Macquarie, sofferente di liquidità. Per far sì che Blackstone e Macquarie cedano parte delle loro quote a Gavio, il governo non ha altra via di riempirli di doviziose plusvalenze: dove trovano i dindi?
La luna di miele tra i fondi finanziari internazionali e Roma è finita nel cestino col Decreto Capitali, voluto da Palazzo Chigi dai fan di Caltagirone, da anni in preda alla fissa di conquistare Generali. Un decreto che non piace assolutamente ai poteri forti tanto da aver spinto il loro house-organ, “Financial Times”, a sparare almeno quattro articoli contro il decreto che rivoluziona, a favore dei Milleri e Caltagirone, il potere nei Consigli di Amministrazione.
A far saltare definitivamente i nervi ai Paperoni dei due lati dell’Oceano è stata la minaccia furibonda ma velleitaria del Mef di Giorgetti di azionare la Golden Power per ammazzare l’operazione di conquista di Unicredit su Banco Bpm, storicamente in quota Lega.
Una mossa, quella di Unicredit, messa repentinamente in atto proprio quando il Ceo di Bpm, Giuseppe Castagna, era partito, lancia in resta, alla conquista del Monte dei Paschi in compagnia di Milleri e Caltagirone, due imprenditori, soprattutto il secondo, cari alla Fiamma Magica.
La grande operazione messa in moto da Lega e Fratelli d’Italia (Forza Italia contraria) per creare il terzo, se non il secondo, polo bancario italiano con l’obiettivo futuribile di fusione Bpm-Mps per partire poi alla conquista di Generali, attraverso il 27% di azioni di Milleri e Caltariccone in Mediobanca, è saltato in aria, per ora, sulla bomba piazzata dal ‘’Cristiano Ronaldo delle fusioni e acquisizioni’’ che porta il nome di Andrea Orcel.
GIUSEPPE CASTAGNA MASSIMO TONONI
Nelle stanze di Palazzo Chigi, dove impera “Qui, comandiamo noi!”, l’operazione Unicredit l’hanno presa ovviamente malissimo; ma checché ne dicano gli economisti Salvini e Giorgetti (l’istituto guidato da Orcel ‘’non è praticamente una banca straniera’’), la Golden Power se la possono mettere in quel posto.
Difatti, Unicredit è una public company (l’azionista che detiene di più, il 7%, è il fondo americano BlackRock), mentre i principali azionisti di Bpm vedono i francesi di Crédit Agricole con il 12%, poi sbuca di nuovo BlackRock (5,2%), fondo Davide Leone and partner con una partecipazione potenziale del 5,47%, infine Fondazione Enasarco con il 3%.
Quindi: di che cianciano Salvini e Giorgetti, quando tirano fuori, la “sicurezza nazionale”? Se andrà in porto l’operazione di Orcel, al massimo l’Antitrust farà dismettere a Unicredit le filiali in Veneto di Bpm, come è successo a Intesa quando si portò a casa Ubi.
Comunque l’Ops di Orcel su Bpm non potrà diventare Opa, cioè oltre allo scambio di titoli occorre mettere sopra almeno un miliardo e mezzo di euro cash, finché resterà aperta un’altra sua operazione di conquista, la banca tedesca Commerzbank, dove Unicredit ha una partecipazione al 21%.
Acquisizione messa in stand-by dal governo del cancelliere Olaf Scholz, in attesa delle elezioni anticipate in Germania in calendario il 23 febbraio 2025. Se, come è probabile, andrà a capo della Bundestag la Cdu democristiana di Fredrich Merz, l’ipotesi che la seconda banca tedesca venga assorbita da Unicredit diventa remota.
Intanto, i media hanno annunciato contatti parigini di Orcel con il Credit Agricole, che pare non abbia finora ottenuto grandi soddisfazioni col suo 12% in Bpm a causa della politica di Castagna, che ha rilanciato e ricostruito una banca intorno a sé, concedendo poco al suo primo azionista.
Ma per ora la banca controllata dallo Stato francese, col suo investimento non speculativo ma strategico, sta alla finestra a vedere come si evolverà la situazione. Mentre corre un ottimo rapporto tra Orcel e l’altro socio di Bpm, Davide Leone, gestore di fondi di stanza a Londra.
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