DAL CAIRO UN GOLPE AL CUORE DI OBAMA - ISRAELE E GLI STATI ARABI DALLA PARTE DI AL SISI

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Paolo Mastrolilli per La Stampa

Il mondo alla rovescia. La crisi egiziana mette a rischio le alleanze su cui gli Usa cercavano di ricostruire una parvenza di stabilità in Medio Oriente, dopo la «primavera araba», creando imbarazzo e confusione anche sul fronte interno.

Partiamo dai guai domestici, per allargarci poi a quelli internazionali. La situazione è così complicata che ieri il capo della Casa Bianca ha riunito i suoi consiglieri più stretti per decidere cosa fare degli aiuti economici all'Egitto. Alla fine però il portavoce del presidente ha ripetuto che non è ancora stata presa una decisione definitiva.

I neocon avevano spinto l'amministrazione Bush a diffondere la democrazia con ogni mezzo, inclusa la guerra in Iraq, e Michael Novak rivendica ancora oggi che «la primavera araba è stata un effetto di quella politica». C'è da chiedersi se l'effetto è stato positivo, però, considerando l'instabilità che travolge l'intero Medio Oriente.

Ed è curioso notare che proprio il rivale repubblicano di Bush, John McCain, sostiene ora la necessità di adottare la linea dura contro i militari egiziani e tagliare gli aiuti, mentre analisti democratici come Charles Kupchan o Zbigniew Brzezinski invitano a passare dal moralismo al realismo, lasciando che l'esercito sconfigga i Fratelli musulmani.

L'amministrazione Obama non sarebbe certamente dispiaciuta di vedere gli islamici fuori gioco, anche se aveva fatto di necessità virtù, stabilendo un rapporto di collaborazione col governo di Morsi. Però aveva posto dei paletti: prima aveva chiesto proprio a Morsi di rendere democratico il suo esecutivo e dialogare con l'opposizione, quindi aveva sconsigliato il golpe ai militari, e una volta accaduto aveva sollecitato il generale Al Sisi a non infierire sui Fratelli musulmani, ricostruendo al più presto un governo civile.

Nulla di tutto questo è avvenuto, anche perché gli alleati di Washington hanno fatto l'opposto di quanto si aspettava Obama. Arabia, Emirati e Kuwait, decisi ad eliminare la concorrenza del modello islamico egiziano, hanno promesso a Sisi di compensare qualunque riduzione degli aiuti Usa: 12 miliardi di dollari offerti, contro 1,5 degli americani, e discorso chiuso.

Nello stesso tempo Israele, pur non coordinandosi con l'Arabia, ha fatto capire che sta dalla parte dei militari, ad esempio con l'intervento dell'Aipac sui parlamentari repubblicani che proponevano il taglio degli aiuti al Cairo. Netanyahu ha appena accettato di tornare al negoziato con i palestinesi, e non si capisce perché dovrebbe favorire la conservazione in Egitto di un regime islamico alleato di Hamas. Dunque Stato ebraico sulla stessa linea di Arabia ed Emirati, che neppure lo riconoscono.

Lo scompiglio delle alleanze, però, è anche più complicato di così. Infatti Turchia e Qatar hanno lavorato insieme agli Usa per contrastare in Siria l'Iran, Hezbollah e gli sciiti che appoggiano Assad, ma in Egitto hanno difeso Morsi. Proprio ieri Erdogan ha detto di avere le prove che Israele «è dietro al golpe», riferendosi a una conversazione in cui Tzipi Livni e Bernard-Henri Levy dicevano che la democrazia non sta solo nel voto.

Se questo non bastasse, la Russia sta attentamente alla finestra, pronta a sfruttare l'occasione per ristabilire la sua influenza al Cairo. Magari Sisi «comprerà gli Su-35 di Mosca, al posto degli aerei F16 americani, con i soldi offerti dall'Arabia», avverte l'editorialista del «Wall Street Journal» Bret Stephens.

Come se ne viene fuori? Per gli interessi americani il successo dei militari sarebbe la soluzione migliore, anche se significherebbe derogare ai valori di democrazia e libertà, a patto però di non provocare una guerra civile o generare una nuova ondata terroristica. Su questo, almeno, l'analista del Council on Foreign Relations Kupchan non ha dubbi: «Piuttosto che vedere la fine del monopolio autocratico come un'occasione per diffondere la democrazia, Washington dovrebbe ridimensionare le sue ambizioni e lavorare con governi di transizione per stabilire le fondamenta di un potere responsabile, anche se non democratico».

 

 

Al SisiBARACK OBAMA JOHN MCCAIN AL GIURAMENTO OBAMA CASA BIANCAMohammed Morsi