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Rossella Verga per il "Corriere della Sera"
«Tutti i miei beni sono sotto sequestro e la mia famiglia non ha più nulla. Per fortuna ci sono gli amici: i miei vivono grazie a loro». Pierangelo Daccò, 56 anni, è accusato di aver svuotato le casse del San Raffaele e della Fondazione Maugeri, offrendosi per anni come «mediatore» in virtù dei suoi buoni rapporti con il governatore Roberto Formigoni.
Da undici mesi, precisamente dal 15 novembre, la sua casa è una cella nel carcere di Opera, al piano terra del primo raggio, quello dei colletti bianchi. Camicia azzurra, maglione, pantaloni della tuta, Daccò trascorre le giornate leggendo, rispondendo alle lettere e aspettando la visita dei familiari. Ma pensa alla sua nuova vita: «So bene che la mia reputazione è distrutta in Italia e all'estero - dice -. Sono convinto però di essere uno pieno d'iniziativa, mi inventerò qualcosa».
Forse già ieri Pierangelo Daccò sperava in un verdetto favorevole. A Palazzo di Giustizia si è svolta l'udienza sulla richiesta della Procura di prorogare di altri tre mesi in via straordinaria la carcerazione preventiva di Daccò e dell'ex assessore alla Sanità lombarda, Antonio Simone, altrimenti in scadenza il 13 ottobre, in relazione ai 60 milioni di euro che i due ricevettero come compenso dalla Maugeri per i loro servigi al Pirellone (Daccò comunque, in attesa dell'appello per il crac del San Raffaele, potrebbe non uscire per altri 15 mesi per la condanna a 10 anni appena inflittagli per concorso in bancarotta fraudolenta).
Ma il gip milanese, Vincenzo Tutinelli, si è preso una giornata e la decisione sulla proroga è attesa per oggi. Da 11 mesi Daccò il «mediatore», munifico elargitore di benefit a Formigoni, occupa da solo una cella che tiene perfettamente in ordine. Letto ben fatto, armadio, sedia e scrivania dove in primo piano spicca la rivista «Tempi».
Tanti libri, giornali e tv. Il bagno personale. Un crocefisso alla parete e un rosario posato sulla branda. Sempre presente tra le pareti della cella anche la madonnina di Medjugorje. Ha trovato conforto nella fede, questo è certo. Ma la forza di andare avanti arriva soprattutto dall'affetto dei familiari. Accanto a sé custodisce una serie di fotografie: la moglie, la figlia, i nipoti. Un pezzo di casa che lo mantiene ancorato alla realtà , la sua realtà , e che rompe il clima plumbeo del carcere. Dove però ha fatto una scoperta. «Ho trovato una grandissima umanità - afferma - tra i detenuti e tra gli agenti di polizia penitenziaria».
In quasi un anno di detenzione l'uomo dipinto dai pm come «l'apriporte» della sanità lombarda e descritto dagli amici come uno che si sapeva godere la vita tra vacanze da sogno sul suo yacht, ristoranti di lusso e amici potenti, è cambiato molto. Incontrando Pierangelo Daccò colpisce subito il fatto che non è più la stessa persona della foto apparsa in questi mesi sui giornali.
à molto più magro, i capelli imbiancati, lo sguardo triste. Ma soprattutto è un uomo preoccupato per i suoi cari, costretti a vivere facendo affidamento sulla generosità degli amici. «La famiglia è la cosa che mi manca di più», ha ammesso conversando in carcere con il consigliere regionale dell'Udc, Enrico Marcora.
L'esponente centrista, vicepresidente della commissione Carceri della Regione Lombardia, è andato a trovarlo dopo aver letto le dichiarazioni del parlamentare del Pdl Alfonso Papa, ex magistrato. Papa qualche giorno prima era uscito dall'incontro «impressionato», raccontando di averlo trovato «molto dimagrito» e in preda a «un certo straniamento della psiche che nasce da un profondo dolore e una profonda sofferenza».
Al deputato del Pdl, che sta combattendo una battaglia per migliorare la vita dei detenuti e denuncia «un uso della carcerazione preventiva sempre più spregiudicato e violento», Daccò è apparso apatico. Marcora però ha avuto un'impressione diversa. «Compatibilmente con la condizione di detenuto - racconta - io l'ho trovato bene. Non mi è sembrato provato e l'ho visto sempre molto attento. Un uomo intelligente e presente. Lucido e sveglio. Informato di tutto. Legge i giornali, guarda la televisione. Lo definirei in buone condizioni sia fisiche che mentali».
Il consigliere dell'Udc gli ha raccontato di essere stato a trovare l'amico Simone. «Gli ho spiegato che l'ex assessore a San Vittore se la passa molto peggio, lui può considerarsi un privilegiato», riferisce. I due hanno parlato anche della corrispondenza che Simone ha avviato dal carcere su «Tempi».
«Io non mi sento di farlo - è stata la risposta di Daccò -. Non sono uno capace di scrivere bene». Non si reputa uno scrittore, ma è certo di essere dalle parte della ragione. E in fondo è sicuro che uscirà presto. «La prossima volta che passo dal carcere torno a salutarla», si congeda infine Marcora. «Spero proprio di non essere più qui». Risposta scontata, ma negli occhi, ci giurerebbe il consigliere, si intravede una luce. La speranza.
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