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DAGOREPORT - BENVENUTI AL GRANDE RITORNO DELLA SINISTRA DI TAFAZZI! NON CI VOLEVA L’ACUME DI…
Alessandro Barbera per “la Stampa”
Negli anni della crisi ne hanno accumulate tutte le banche del mondo. Nella gran parte dei casi la politica, con pragmatismo, ha risolto il problema. L’Italia ha fatalmente atteso. Noi le chiamiamo sofferenze bancarie o crediti deteriorati, gli anglosassoni «non perfoming loans». In giro per l’Europa ce ne sono ancora per 900 miliardi di euro, ben 200 di questi sono in Italia, dice il Fondo monetario.
Da ormai due anni il governo sta tentando un accordo con la Commissione europea per poter fare quel che si è fatto in molti altri Paesi europei: istituire una cosiddetta «bad bank» che assorba almeno una parte di questa – chiamiamola così - spazzatura. Ma ormai il treno sembra passato.
Lo ammette anche José Vinalsa, capo del dipartimento finanziario del Fondo: «Una soluzione del genere funzionerebbe come un aspirapolvere, ma è difficile da attuare». Le nuove regole dell’Unione bancaria oggi impediscono di fare ciò che fino a ieri era autorizzato. Con modalità diverse, il problema è stato affrontato in Gran Bretagna, Francia, Germania, Irlanda, Spagna, e prima della crisi lo aveva fatto la Svezia.
accantonamenti sofferenze bancarie
Negli anni in cui era ancora possibile Tesoro e Palazzo Chigi hanno indugiato, nel timore di affrontare il costo politico di una misura impopolare, poi vai a spiegare che si usano fondi pubblici per salvare i bilanci delle banche. Eppure per quella via sarebbe possibile liberare risorse a favore dell’economia. Fino a due terzi dei già citati 900 miliardi, dice sempre il Fondo. Più sono alte le sofferenze, più le banche sono costrette ad accumulare capitale di riserva, più è difficile sostenere le imprese. Fatta la proporzione, in Italia significa 130 miliardi di minori prestiti.
Il conto è presto fatto: alla fine del 2014 i crediti deteriorati bloccavano 52 miliardi di euro, il 3% del capitale nelle banche dell’intera area euro, scrive il Global Financial Stability Report. «Si sono fatti passi avanti, ma restano problemi tecnici nel calcolare il prezzo di questi crediti», ovvero la differenza fra quanto viene iscritto a bilancio e quanto gli investitori sono disposti a pagare. Se i crediti deteriorati fossero venduti agli investitori aspettandosi un ritorno del 10%, si renderebbero disponibili 602 miliardi.
Quel che il governo poteva fare, l’ha fatto. Qualche settimana fa ha varato un decreto che oggi permette alle banche una maggiore deducibilità delle perdite, ma – ufficialmente - non ha ancora perso la speranza di chiudere l’accordo con Bruxelles sulla «bad bank» o qualcosa che gli somigli. Ha il sostegno della Banca d’Italia e persino della Bce, ma finora non è bastato. Il punto è che nel frattempo alcuni istituti si sono mossi autonomamente (Intesa Sanpaolo e Unicredit su tutte) e non sono particolarmente eccitate a sostenere una soluzione che di fatto permetterebbe allo Stato di condizionare le loro scelte d’impresa.
A proposito di scelte politiche: il Fondo monetario invita i governi continentali a smettere di credere che possa essere Mario Draghi a risolvere la persistente fragilità dell’eurozona, e semmai a procedere sulla strada dell’Unione bancaria. La richiesta alla Federal reserve invece è di prendere tempo e di non aumentare i tassi di interesse almeno fino a quando l’inflazione non salirà ad un livello ragionevolmente alto.
Gli scenari fatti dagli analisti dicono che un mix fra aumento dei tassi, aumento del cambio del dollaro e crisi valutaria di qualche Paese emergente (quelli indebitati in dollari e più dipendenti dal calo dei prezzi delle materie prime) potrebbe provocare uno choc violento sui mercati. E allora addio ripresa, nel mondo e in Italia.
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