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Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera”
Mentre in testa al corteo del Primo maggio alcuni centri sociali e i comitati «No Expo» contestano il lavoro «gratuito» dei volontari alla manifestazione di Rho-Pero, sui muri del quartiere Ticinese compare una scritta che è la sintesi di tutte le divisioni della protesta di Milano: «Gratis o pagato, lavorare è sempre lavorare».
Non è soltanto uno slogan, ma la fotografia dell’insanabile frattura tra il mondo antagonista dei centri sociali e quello anarchico anticapitalista. L’ala più dura della protesta, quella dei ragazzi incappucciati, quella secondo la quale non esistono azioni per combattere il potere «carenti di violenza». Sono facce della stessa medaglia che rivendicano la partecipazione al corteo della May Day ma che oggi si trovano comunque su fronti differenti. Non nel disconoscimento della protesta, ma nel giudizio sulle azioni del blocco nero che teorizza e mette in pratica la nuova guerriglia urbana.
A Milano, pur ribadendo che nessuno rinnega il corteo del Primo maggio, ci sono posizioni più critiche verso «i leoni in azione per un’ora di gloria concessa da potere e polizia». Come quelle del centro sociale Cantiere di via Monte Rosa, dello spazio Mutuo soccorso di piazza Stuparich, degli occupanti di San Siro e del coordinamento dei collettivi studenteschi.
Militanti che in passato hanno anche partecipato a tafferugli, come alla Prima della Scala, ma comunque ala più dialogante del movimento, che mai ha alzato il livello dello scontro: «Getta fumo chi va affermando che “il blocco nero era innegabilmente lo spezzone più numeroso dell’intero corteo”. Per noi è e sempre sarà centrale la scommessa della partecipazione e il Primo maggio è stato un grande esempio di partecipazione. Ma non pensiamo che il “blocco nero” abbia asfaltato i movimenti. Siamo una comunità ampia, il dibattito è in divenire».
Il riferimento, in questa galassia di micropuntualizzazioni e infinitesimi distinguo tipici del lessico antagonista, è doppio. Poche ore dopo gli scontri di via Carducci un articolo pubblicato sul sito del Manifesto titolava appunto «I riot che asfaltano il movimento» con un’analisi puntuale di quanto avvenuto in corteo: «I neri che prendono la piazza e la polizia che con intelligenza evita il contatto». Linea subito sposata dall’ala meno radicale dei milanesi.
Ma anche ad un altro articolo («Non a tutti piace Expo») apparso sul sito Infoaut proprio in risposta al Manifesto : «Lo spezzone banalizzato come “blocco nero” raccoglieva composizioni politiche e sociali molto differenti e stratificate, piaccia o meno, era il più numeroso del corteo. Si trovavano riunite soggettività che intendevano praticare una qualche forma di conflitto».
Una posizione, questa, condivisa immediatamente da altri gruppi, legati all’area anarchica. Come l’ex Bottiglieria, oggi albergo occupato vicino alla borghese via Washington. O come il Comitato abitanti del Giambellino i cui membri sono stati perquisiti nei giorni scorsi dalla polizia: «Io non mi dissocio, la vera violenza è quella degli sgomberi e della polizia», scrivono in un post Facebook poi eliminato ieri pomeriggio.
I torinesi No Tav di Askatasuna si schierano con i cinque arrestati durante il corteo: «A Milano c’eravamo tutti. Non porsi il problema di come dare senso a una rabbia latente e necessaria è una scelta ponziopilatesca». «Siamo stati a Milano, e contenti di esserci stati», scrivono sul web i militanti di Alessandria. Mentre i veneti del Gramigna, di Bioslab e Radiazione hanno preso le distanze dalle tute nere: «Un comportamento che non ci appartiene».
Da Napoli, dal Laboratorio occupato Insurgencia, arriva un’altra rivendicazione della partecipazione al corteo di Milano: «Ci sono spezzoni determinati e organizzati. Ci sono azioni che contestano alcuni degli obiettivi della nostra rabbia che non è istintiva ma ragionata e diretta verso i responsabili della gestione della crisi, dell’impoverimento dell’Europa, dello sfruttamento».
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