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Carlo Bertini per "La Stampa"
Dopo quello sull'amnistia, è il secondo scossone impresso al Pd da Matteo Renzi con il suo discorso di Bari: a dar fuoco alle polveri sulla legge elettorale, ci pensano i suoi uomini, che in un vertice con Epifani si ergono a sentinelle del bipolarismo contro ogni ipotesi di "accordicchio" col Pdl per superare il porcellum. Ottenendo così il risultato di piegare il resto del partito a restare sulla linea del Piave del doppio turno senza cedimenti.
La grana esplode di buon mattino nella sede del Pd, quando Epifani ne discute con Zanda, Speranza, Finocchiaro, Violante, il renziano Richetti, il bersaniano D'Attorre, il lettiano Dal Moro. Di lì a poco si deve riunire il gruppo al Senato per decidere se andare avanti sulla strada del modello ribattezzato «l'ispanico»: un proporzionale corretto con una spruzzata di maggioritario, ma sempre a turno unico e con una soglia altissima per il premio di maggioranza.
Il bivio è netto: si deve scegliere se tenere ferma la bandiera del doppio turno, da sempre inviso al Pdl, rischiando di far saltare ogni accordo al Senato. O se acconciarsi ad una riforma che superi il porcellum ma senza tutelare il bipolarismo e quindi con una serie di controindicazioni: le prevedibili accuse di inciuci con il nemico per mantenere un sistema di larghe intese sine die, visto che con tre grossi blocchi, nessuno schieramento sarebbe in grado di superare una soglia del 40-42% dei voti.
Qualcuno rispolvera l'ipotesi di aspettare la fine del percorso di riforme istituzionali su premierato e superamento del bicameralismo, per evitare scossoni sul governo. Ma l'urgenza incalza, incombe il giudizio della Consulta ai primi di dicembre sul porcellum ed Epifani chiude la riunione dicendo che si deve insistere per cercare una mediazione, tenendo fermi i paletti sollevati dai renziani e condivisi dalla gran parte del partito. Nel chiuso del Nazareno, l'effetto Renzi si materializza nelle parole di Richetti, convinto che «se si ipotizza uno sbarramento del 40-42% oltre il quale si vince il premio di maggioranza, senza il doppio turno si sanciscono le larghe intese a vita».
Il nodo è così insidioso, anche in chiave congressuale, da provocare la reazione di Gianni Cuperlo. Il quale, da sostenitore del doppio turno, ma nel timore di farsi scavalcare a sinistra da Renzi e di restare l'unico a difendere la linea di un accordo purchessia, chiede a Epifani di convocare i quattro candidati per fissare una posizione comune del Pd. Cuperlo non vuole che «la riforma elettorale diventi un tema di incursioni e di divisione».
E chiede che «il Pd si presenti unito con una propria proposta che tenga insieme la difesa del bipolarismo, l'esigenza di governabilità , il diritto dei cittadini di scegliere e riconoscere gli eletti; ma anche la necessità di individuare in Parlamento la più ampia convergenza». Tradotto, «non lasceremo che Renzi si intesti da solo questa battaglia», dicono i cuperliani.
E i renziani esultano, perché ora che nel Pd si è preso atto che l'ipotesi «porcellinum» è saltata, secondo loro questo sarà lo sbocco più probabile: come chiesto da Renzi, la riforma elettorale potrebbe essere «incardinata» alla Camera, anche in virtù del fatto che il Senato sarà impegnato con la finanziaria fino a novembre. E potrebbe prendere quota una proposta di mediazione, da loro considerata «di ultima istanza», per un doppio turno di coalizione, secondo cui lo schieramento che non raggiunga la soglia va al ballottaggio e chi vince ha il 55% dei seggi, con i parlamentari scelti dalle preferenze. E anche se al Senato servirebbero sempre i voti del Pdl, un voto positivo alla Camera consentirebbe al Pd di sgombrare il campo dall'argomento che nessuno vuole cambiare il porcellum e di ridare il cerino in mano al Pdl e a Grillo.
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