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1- INGROIA SOTTO ACCUSA: OFFESE LA CONSULTA - PROCEDIMENTO DISCIPLINARE DELLA CASSAZIONE NEI SUOI CONFRONTI: «VILIPESE LA CORTE COSTITUZIONALE PARLANDO DI DECISIONI POLITICHE»
Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera"
Prima il rovescio elettorale, ora l'atto di incolpazione. La procura generale della Corte di cassazione ha aperto nei confronti di Antonio Ingroia, candidato premier (non eletto) della lista Rivoluzione civile, ex procuratore aggiunto di Palermo, un provvedimento per illecito disciplinare, per «aver vilipeso la Corte costituzionale e leso il prestigio e la reputazione dei suoi componenti».
Nell'atto di incolpazione, firmato dal pg Gianfranco Ciani, giunto ieri al Consiglio superiore della magistratura, si leggono i motivi del procedimento: «L'aver gravemente mancato ai propri doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio ponendo in essere comportamenti idonei a integrare violazione di specifici precetti penali, tali da ledere l'immagine del magistrato».
Quali? Le interviste. Proprio così. Ad Ingroia, protagonista di un duro scontro giuridico con il Quirinale finito di fronte alla Corte costituzionale, sulla richiesta di distruggere le telefonate del presidente Giorgio Napolitano con l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino (allora indagato e poi rinviato a giudizio), il pg della Cassazione rimprovera i commenti sulla decisione della Consulta: l'aver ritenuto le intercettazioni illegittime e averne disposto la distruzione, accogliendo il ricorso del Presidente per il conflitto di attribuzioni. Commenti fatti il 5 dicembre 2012, quando non era più procuratore aggiunto di Palermo, ma ricopriva un incarico in Guatemala per conto dell'Onu, ed era in attesa di aspettativa dal Csm per motivi elettorali.
Nelle due pagine del provvedimento il pg enumera quelle frasi che avrebbero «platealmente esorbitato dai limiti del diritto di critica e di espressione del proprio pensiero». Eccole. A partire dall'aver definito «bizzarra» la decisione. «Le ragioni della politica hanno prevalso su quelle del diritto», aveva detto Ingroia. Aggiungendo che fino ad allora aveva ritenuto «che le decisioni della Corte costituzionale non potessero essere condizionate dal clima che si avvertiva nel Paese».
«à vero che la Corte costituzionale è un organo sui generis rispetto alla magistratura ordinaria, che non può non tenere conto degli aspetti politico-istituzionali presenti dietro ogni vicenda che affronta, ma in questo caso tutto ciò è avvenuto in maniera eccessiva e le ragioni del diritto sono state mortificate», aveva osservato.
Contestate all'ex pm anche altre affermazioni: «Le decisioni della Corte costituzionale devono avvenire in base alle regole del diritto, e non in base alle ripercussioni politiche». Oppure: «Per ragioni politiche prima ancora che giuridiche non c'era altra via d'uscita che dare ragione al presidente della Repubblica»;
«Mesi di can-can politico e mediatico che hanno catturato l'attenzione, perfino a livello internazionale hanno inevitabilmente pesato sulla decisione». O ancora: «Il comunicato emesso dà la sensazione di una sentenza che risente anche del condizionamento del clima politico». E infine: «Non esistono sentenze che non risentono del clima generale che si respira in un Paese».
A dire il vero, nelle interviste contestate, uscite a caldo subito dopo il comunicato della Corte costituzionale sulla decisione, Ingroia aveva aggiunto: «Magari le motivazioni mi convinceranno del contrario». Ma per il pg il «vilipendio» c'era già stato.
2. L'EPILOGO DEL GIUSTIZIALISMO
Giovanni Bianconi per "Il Corriere della Sera"
C'è stato un tempo in cui il cosiddetto «giustizialismo» era garanzia di un buon impatto elettorale. Qualunque significato si voglia attribuire a quel sostantivo, chi si presentava agli elettori brandendo la spada di inchieste e sentenze contro potenti e malaffare poteva contare su un significativo «zoccolo duro»: dalla Rete di Leoluca Orlando che nel 1992 raccolse un discreto consenso, alla Lega di cui divenne immagine-simbolo il deputato che sventolava il cappio, fino a Di Pietro dopo la sua uscita dal pool di Mani Pulite.
Passando per Berlusconi che nel 1994 riempì lo spazio lasciato vuoto dai partiti decapitati dalle indagini, vinse e offrì all'ex pubblico ministero la poltrona di ministro dell'Interno. Rifiutata. Venti anni dopo la situazione sembra capovolta. Il movimento Rivoluzione civile fondato dal pm Antonio Ingroia, in cui comparivano lo stesso Di Pietro e Leoluca Orlando, non è riuscito a portare nemmeno un rappresentante nel Palazzo.
«Sarebbe bene che una volta tanto la politica assecondasse le decisioni della magistratura - aveva spiegato Ingroia in un comizio -. à per questo che un magistrato ha deciso di entrare in politica, per aiutare la magistratura dall'altra parte». Il messaggio non è passato, e dopo la disfatta è cominciato il fuggi fuggi dei principali sponsor dell'operazione fallita.
«Rivoluzione civile non ha futuro», ha sentenziato ieri l'altro ex magistrato Luigi De Magistris, già eurodeputato dipietrista e ora sindaco «arancione» di Napoli, nemmeno ventiquattr'ore dopo che Ingroia aveva detto l'esatto contrario: «Rivoluzione civile non è morta». Ieri l'inquirente della presunta trattativa Stato-mafia ha chiamato a raccolta i candidati non indicati dai partiti che lo sostenevano, quelli pescati nella cosiddetta società civile, dai quali è giunto l'invito ad andare avanti.
Ma il destino del movimento resta incerto, a causa della sconfitta di un progetto che contava anche sulla capacità di richiamo delle indagini svolte dal leader mentre indossava la toga. à quello che non piaceva all'Associazione nazionale magistrati, e oggi il presidente dell'Anm Sabelli commenta: «Pur salvaguardando il diritto di chiunque a impegnarsi in politica, compresi giudici e pubblici ministeri, bisognerebbe evitare anche solo il sospetto che l'impegno politico sia la naturale prosecuzione del lavoro di magistrato».
Nel caso di Ingroia questo non è accaduto, e Sabelli aggiunge: «Proprio perché noi vorremmo che si introducesse una cesura netta tra le due attività , il successo o l'insuccesso di un magistrato in politica ci è indifferente. Noi teniamo alla salvaguardia della giurisdizione, e dunque dell'attività giudiziaria. Il destino politico di un pm o di un giudice, francamente, ci interessa meno».
Anche l'influenza delle indagini sul voto ha avuto un peso relativo. Se si può pensare che l'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena abbia influito sul calo del Pd nei voti reali rispetto ai sondaggi, sembra invece abbastanza chiaro che gli scandali (o presunti tali) emersi alla Regione Lombardia abbiano condizionato molto meno l'elettorato di centrodestra. E così altri procedimenti che potevano avere qualche riflesso su quella parte politica, come gli accertamenti in corso su Finmeccanica.
In breve tempo arriveranno «a scadenza» ulteriori processi che riguardano Berlusconi e altri personaggi a lui legati, ed è facile immaginare che possano avere una ricaduta sulla difficile partita politica aperta dall'inatteso risultato elettorale.
«Noi non possiamo far altro che continuare a svolgere il nostro lavoro nel rispetto delle regole - commenta ancora Sabelli - senza preoccuparci di eventuali conseguenze di altro genere. Penso però che gli atti giudiziari vadano presi per quelli che sono, senza enfatizzazioni e senza sottovalutazioni. Se si ricominciasse a dare il giusto valore a un semplice avviso di garanzia, così come a una sentenza di condanna definitiva, anche nel rapporto tra politica e giustizia si potrebbe instaurare un clima di maggiore distensione».
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