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Barbara Palombelli per "Il Foglio"
Cesare Romiti ha rivisto Silvio Berlusconi poche sere fa. Erano ospiti al ricevimento per il premio dedicato a Guido Carli, all'hotel Majestic di via Veneto. Dopo tre anni che non si parlavano direttamente. Hanno trovato un argomento in comune subito, a fine cena: la discesa in campo di Luca Cordero di Montezemolo. Sembra che i due leoni abbiano messo in comune la diffidenza nei confronti del presidente della Ferrari.
Ed è stata subito sintonia, armonia ritrovata. Grazie anche al libro pubblicato da Longanesi ("Storia segreta del capitalismo italiano", intervista curata da Paolo Madron), Romiti interviene sulla politica e l'economia come forse non ha mai fatto nella sua vita. Ha voglia di sistemare i conti in sospeso, di rivendicare il lavoro svolto in Fiat e in Rcs, la scelta dei direttori del Corriere della Sera, "il migliore? Senza dubbio Ferruccio de Bortoli, seguito da Stefano Folli", mi ha risposto lunedì alla radio, eliminando Paolo Mieli dalla lista con il sorriso di chi si diverte a fare un dispetto.
Eppure, degli ex avversari come Carlo De Benedetti, parla come di persone con cui lo scontro è stato aperto ma leale. "Non ho mai avuto nemici, a parte i terroristi. Gli altri erano avversari, come Luciano Lama e Carlo Donat Cattin, ma i rapporti sono stati sempre chiari". A farlo commuovere riesce solo il ricordo della moglie Gina, l'unica di cui potesse fidarsi davvero. Ammette di averla tradita, ma mai l'avrebbe lasciata: "La famiglia è una sola, gli amori possono essere tanti. Agnelli e io ne abbiamo fatte tante, non so chi di più e chi di meno, ma non ci ha mai sfiorato il pensiero di rompere il matrimonio".
Conobbi Gina da Marida Recchi a Torino, e ricordo le parole con cui la padrona di casa me la presentò: "La donna da cui tutte le sere Cesare torna, immancabilmente". Un legame d'acciaio, che invano una delle fiamme tentò di insidiare. In un piccolo mondo di grandi imprese, il manager romano nuotava perfettamente a suo agio grazie anche alla simpatia che ispirava al freddo Enrico Cuccia e all'appoggio diretto del fu Partito repubblicano di Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini. Tutti avevano un soprannome, avvocato, ingegnere, "io volevo che mi chiamassero solo Romiti".
Svaniti i protagonisti del capitalismo del Dopoguerra, svanite le grandi imprese, "senza le quali un paese muore", Romiti sogna una rivoluzione pacifica da parte dei trenta-quarantenni. E vorrebbe promuovere una grande campagna per comprare prodotti italiani, nazionali. Contro l'aggressiva Germania, "che ci sta portando come nel 1915 e nel 1940 sulla soglia di una guerra che viene combattuta dalla finanza e non dagli eserciti". Lucido e schietto come sempre, davvero ha ancora cose da dire a una classe dirigente che vorrebbe le aziende pubbliche e il potere politico non per cambiare le cose ma per fuggire dall'impresa e dalle sue dure regole.
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