DAGOREPORT - CON UN MINISTRO DEGLI ESTERI (E UN GOVERNO) ALL'ALTEZZA, CECILIA SALA NON SAREBBE…
Giuliano Ferrara per "Il Foglio"
Nel dicembre del 1992 il diabete mi era d'improvviso schizzato a 4-500 punti. Ero il confessore della Prima Repubblica morente in tv. Venivano da me Andreotti, Misasi, Carnevale, e Craxi per l'ultima intervista nella serata delle monetine, seguito da centinaia di carabinieri nel percorso dal Raphaël agli studi del Foro Palatino della Fininvest. Mi toccò andare a New York, sospendere la tv (cosa che faccio spesso e con un certo gusto) e tentare un digiuno di quattro settimane, programma Optifast con il dottor Aronne. Mi mandarono anche da un comportamentista che mi chiese se mi piacevano pizza, salame, pasta e pane.
Alla risposta generosamente affermativa, mi fece registrare un messaggio a me stesso su nastro, in cui dicevo: "Giuliano, no more salami, no more pizza, no more bread basket" e altre cazzate del genere. Avrei dovuto ascoltarlo, secondo lo psicologo da cinquecento dollari a visita, tre-quattro volte al giorno. Tornai con tredici chili in meno, che poi divennero venti in qualche mese di dieta da riabilitato, volavo e correvo nei parchi come una libellula, mi comportavo come un fauno triste nel pieno della bufera del 1993.
Ma avevo ripreso la tv da Berlusconi, che aveva in quell'orco di giornalista e politico, il più odiato e giustamente denigrato del paese, il testimonial della disfatta dei partiti (lui al telefono me lo diceva sempre, quando menavo Ciriaco De Mita e Giulio Andreotti e i Biagi e compagnia loro tenutari: "Caro Giuliano, lei sempre con quel Bettino mio amico, ma che vuole mai fare con il dieci per cento?"), mentre il resto dei notiziari serviva a salvare il culo alle aziende televisive compromettendosi con i magistrati che avevano creato un'opinione pubblica assassina, le famose tricoteuses che facevano la maglia sotto il patibolo.
Nell'estate, invitato ai Protocolli dei Savi di Arcore, capii che nel crollo generale era davvero intenzionato, il Cav., a triplicare o quadruplicare quel dieci per cento, a vincere e governare il paese con una maggioranza parlamentare conquistata sul campo, strappata alla macchina da guerra dei comunisti, dei retini di Orlando e dei cattolici democratici integralisti.
Ad Arcore c'erano tutti. Mentana, Dell'Utri, Tatò, Confalonieri, Letta, Costanzo, Federico Orlando, Previti e molti molti altri. Scendo o non scendo in campo? Questo era il problema. La sala era bella, illuminata in modo fantastico dalle grandi vetrate, e il convivio registrò per il presente e a futura memoria una quantità di parole che adesso sarebbero non più pronunciabili da molti protagonisti.
Il 1993 fu un anno veramente incanaglito, pieno di terrore e di miseria per chi amava la politica, partecipava, si batteva. Craxi aveva infuocato la resistenza del ceto politico repubblicano sotto accusa, nessuno elaborò mai una razionale strategia di uscita dalla situazione, un piano B; la Dc era preda di un formidabile senso di colpa e dava la stura ai suoi peggiori, storici vizi di codardia e desolidarizzazione, tutti contro tutti, intanto le inchieste si inanellavano l'una con l'altra, arresti, confessioni, carcere, suicidi, tutto congiurava nell'appuntamento del 1993, e la borghesia dell'industria e della finanza, tranne Enrico Cuccia che si provò a fare qualcosa rimasto sempre misterioso con suoi mezzi molto siciliani, rimediò la solita figura di cacca, perduta nell'irrilevanza e nella paura.
Una sera venne a cena da me Craxi, in via del Cancello, con Lucio Colletti e altri, e a un certo punto si appartò e mi sussurrò: "Berlusconi è un fenomeno, secondo me può farcela, ma lo incastreranno perché ha i beni al sole". Un'altra serata fu a casa di Renato Squillante e di sua moglie Liliana, con Cossiga e Berlusconi e altri invitati di cui taccio pietosamente il nome: Cossiga disse a Berlusconi che i pescecani dei partiti, prima di tutto i democristiani, lo avrebbero fatto a pezzi, se fosse entrato in politica, e Berlusconi fece finta di credere a quello che sentiva, e intanto mentalmente calcolava il tempo che gli rimaneva prima del fatale discorso del gennaio dell'anno successivo, il 1994, in cui si gettò tra le braccia del "paese che amo", e lo rapì.
GIULIANO FERRARA Giuliano Ferrara SILVIO BERLUSCONI ED EMILIO FEDE SILVIO BERLUSCONI E FRANCESCO COSSIGA SILVIO BERLUSCONI E FEDELE CONFALONIERI NEGLI ANNI OTTANTA SILVIO BERLUSCONI E INDRO MONTANELLI
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