FLASH! - IL DAZISTA TRUMP, PER SPACCARE L'UNIONE EUROPEA A COLPI DI TARIFFE SUI PRODOTTI ESPORTATI…
Maria Teresa Cometto per "Corriere Economia - Corriere della Sera"
Con la sua «storica» Ipo (offerta iniziale pubblica di azioni) Facebook può arrivare a valere 100 miliardi di dollari. Ma con un'altrettanto «storica» pila di cash Apple se la potrebbe comprare tutta intera. Dal 2010 infatti è raddoppiato il volume di liquidità - in depositi bancari o investimenti a breve - che l'azienda di Cupertino ha accumulato, tenendone ben due terzi fuori dagli Stati uniti.
GLI ESEMPI
Apple è solo l'esempio più clamoroso di una tendenza generale delle multinazionali americane, che si è accentuata negli ultimi anni arrivando a un livello record: in tutto si calcola che abbiano in cassaforte 1.700 miliardi di dollari, ovvero il 6% del valore totale delle loro attività (senza considerare le società finanziarie). à una somma enorme, pari a quasi tutto il prodotto interno lordo di una nazione importante come il Canada; e superiore al patrimonio globale del prodotto finanziario più di successo oggi, gli Etf, i fondi indicizzati e quotati in Borsa.
Nessuno è contento di come questi soldi giacciano inutilizzati. Non sono contenti gli azionisti delle aziende quotate, che preferirebbero fossero distribuiti sotto forma di dividendi e invece si ritrovano con il livello di pay-out (porzione dei profitti destinata ai dividendi) ai minimi da un secolo a questa parte (calcolato sui componenti dell'indice S& P 500). Non sono contenti i politici, a partire dal presidente Barack Obama, che accusano i top manager di pensare solo ai propri bonus e non a reinvestire i profitti per creare posti di lavoro.
Il tema è caldissimo negli Usa dove è in corso una campagna elettorale giocata proprio su come far crescere di nuovo l'economia e l'occupazione. Le ricette dei Repubblicani (gli sfidanti) e dei Democratici (il partito alla Casa Bianca) sono molto diverse ma su un punto sono d'accordo: la tassazione dei redditi aziendali negli Stati uniti è fra le più alte al mondo (35% di aliquota massima, peggio c'è il Giappone). Ed è anche per questo che le società come Apple non rimpatriano i profitti generati all'estero e li lasciano in Paesi dove il fisco è molto più leggero. Ma come incentivarle a comportarsi diversamente?
Nel suo discorso sullo Stato dell'Unione di fine gennaio Obama ha proposto degli sconti sulla tassazione dei profitti esteri a favore delle aziende che fanno insourcing (il contrario dell'outsourcing), cioè chiudono fabbriche all'estero e le riaprono in patria. E al Senato di Washington c'è già una proposta bipartisan - firmata dal Repubblicano John McCain e dalla Democratica Kay Hagan - per una riduzione temporanea delle tasse sui profitti rimpatriati fino al 5,25% se le aziende beneficiarie assumono nuovi dipendenti negli Usa, sulla falsariga di un provvedimento simile adottato nel 2004. Ma basterebbe questo a convincere Apple & co. a togliere i soldi da sotto il materasso?
RIMPATRI AMARI
No, dicono esperti sia di destra sia di sinistra che hanno analizzato gli effetti degli incentivi del 2004. Lo staff Democratico della Commissione senatoriale permanente per le inchieste ha scoperto che le 15 aziende che avevano ottenuto più benefici dagli sconti del 2004 rimpatriando i profitti esteri, poi hanno tagliato in tutto 20 mila posti di lavoro e rallentato anche il ritmo degli investimenti nella ricerca; il tutto a spese del Tesoro Usa, che ha perso 3,3 miliardi di dollari di introiti fiscali. Fra le aziende citate nello studio spicca il gruppo farmaceutico Pfizer, che ha rimpatriato 35,5 miliardi di profitti esteri ma tagliato 11.748 posti di lavoro americani dal 2004 al 2007.
Il pensatoio conservatore Heritage foundation è d'accordo che un bis del 2004 sarebbe fallimentare, perché se le aziende non investono in America non è per mancanza di capitali, disponibili sul mercato a tassi di interesse minimi: invece di incentivi temporanei, c'è bisogno di una riforma generale del sistema di tassazione delle aziende e di una semplificazione delle regole.
INCERTEZZE
Un abbassamento delle tasse aziendali - per esempio dal 35 al 25% come aveva proposto la Commissione Simpson-Bowles che Obama aveva nominato per trovare soluzioni al boom del debito pubblico, ma poi ignorato - aiuterebbe, ma non basterebbe. «Il fatto è che un grande numero di aziende aspetta e sta a guardare come si muove l'economia Usa», osserva Anant Sundaram, docente alla Tuck School of Business di Dartmouth.
à l'incertezza, economica e soprattutto politica, a frenarle, sostengono tre economisti ideatori di un indice dell'Incertezza politica negli Usa: Scott Baker e Nicholas Bloom della Stanford university e Steven Davis, della Booth School of Business della University of Chicago.
L'incertezza economica dopo il congelamento del mercato creditizio nel 2008 e i timori sul collasso dell'euro sono certo fattori preoccupanti per le multinazionali. Ma, secondo i tre economisti, un freno ancor più forte agli «spiriti animali» dei capitalisti americani sono le incognite legate alle decisioni politiche: fra il 2011 e il 2012 ben 130 provvedimenti fiscali sono in scadenza, fra cui i tagli di Bush alle tasse che erano stati prorogati nel 2010; e nel 2013 entra in vigore la riforma sanitaria di Obama con un impatto sui costi aziendali tutto da vedere, sempre che non vincano i Repubblicani e la cancellino.
L'Indice dell'incertezza è quindi ai massimi da 30 anni: se tornasse ai livelli del 2006 - sostengono i tre autori - le aziende americane impiegherebbero una parte del loro cash per assumere 2,5 milioni di americani entro 18 mesi.
Barack ObamapfizerGeorge w Bushlogo appleTIMOTHY GEITHNER
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