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Elisabetta Soglio per il “Corriere della Sera”
Uno che da sempre si autodefinisce ironicamente «un terrone di Baggio», mettendo insieme le origini abruzzesi della famiglia paterna e la nascita in uno dei quartieri popolari di Milano, uno così può «accettare e sopportare tutto». Ma non che gli tocchino la famiglia. E così, Maurizio Lupi lascia l’incarico di ministro: «Devo difendere i miei». Una decisione sofferta e tormentata, arrivata dopo tre giorni di travaglio, di umori cambiati quasi ogni ora: prima sconfortato, poi combattivo, poi di nuovo abbattuto, poi tonico.
Ieri mattina ha preso i giornali all’alba, ha riletto i nomi del figlio Luca, della moglie Manuela, di alcuni amici cari. Ed è andato a correre. Dopo due giornate sospese in un limbo, senza mangiare quasi nulla, pochissime ore di sonno, il viso sempre più tirato, ai suoi è sembrato un bel segno: «Quando va a correre, si chiarisce le idee». E forse quella sgambata nel parco di Villa Borghese davvero è servita a maturare la scelta.
«Mi dimetto», ha annunciato anzitutto alla moglie. Che in un primo momento ha fatto resistenza. Lei, che quando era stato nominato ministro nel 2013 non si era neppure fatta vedere alla cerimonia al Quirinale, arrabbiata com’era per questo nuovo impegno che avrebbe tenuto il marito ancora più lontano da casa e dagli affetti, proprio Manuela ieri mattina ha cercato di opporsi alla scelta: «Non hai fatto nulla di male, stai solo servendo il tuo Paese. Perché dimettersi?». Ma la decisione era presa.
«Mi hanno intercettato per quasi due anni — ha spiegato ai suoi — e ci sono ventisettemila pagine di verbali che peraltro arrivano prima ai giornalisti che a me. Ogni cosa potrebbe essere letta in modo distorto, dovrei rendere conto di ogni virgola, di ogni parola. Questa onda non si ferma più».
Come la storia del figlio Luca: «Lo stanno braccando cercandolo a New York, chiamando lo studio dove lavora, scrivendo mail. Luca è un bravo ingegnere che non aveva bisogno del mio aiuto per trovarsi un mestiere e che deve vivere sereno la sua vita». E poi l’aereo pagato a Manuela per raggiungerlo a Bari, «come se il mio problema fossero i soldi di un biglietto». E chissà cosa ancora. «È uno stillicidio, ora basta».
Così, intorno alle 13, c’è stato l’incontro con Renzi, «che in questi giorni con me è stato molto corretto, dal punto di vista politico e personale» e la telefonata al presidente della Repubblica per informarlo della decisione. Renzi, «che non mi ha mai chiesto di dimettermi» e con cui si vedrà ancora oggi, «perché dobbiamo capire come mandare avanti il lavoro fatto in questi due anni al ministero delle Opere Pubbliche. Non si deve fermare nulla, me ne vado anche per non correre il rischio che la mia presenza blocchi le attività di un governo nato per cambiare il Paese e restituire una spinta economica e di fiducia».
Poi c’è Alfano, che da martedì gli è stato incollato come un’ombra: «Angelino si è dimostrato un amico e ho sentito l’affetto e l’appoggio di tutto il partito», ripete Lupi ringraziando i suoi. Non fa i nomi, ma è grato anche ai colleghi di opposizione che in questi giorni gli hanno comunque dato attestati di solidarietà: «Non mi sono sentito scaricato perché ci sono molti, anche al Parlamento, che conoscono la mia storia personale e politica e non hanno mai messo in discussione la mia serietà».
In questa altalena di sentimenti, il momento più brutto è stato all’inaugurazione di MadeExpo. Prima, gli imprenditori lo avevano accolto bene, c’erano state strette di mano e qualche incoraggiamento, «loro sanno che cosa ha fatto Lupi per aiutare il settore», spiegano i collaboratori. Poi, quella ressa mediatica, con le telecamere, i giornalisti, le domande «aggressive e violente». «Ma come possono chiedermi se mi sono pagato l’abito che ho addosso? Ma per chi mi hanno preso?».
Il «terrone di Baggio», nato al quartiere degli Olmi dove ancora vive nell’appartamento (comprato con mutuo), vuole «salvaguardare la mia dignità», chiarendo che «si può fare politica anche senza essere ministro» e confidando sul fatto che «alla fine la verità verrà fuori e il tempo mi darà giustizia».
Certo, rispetto al solito oggi Lupi non sorride. Lui, uno sempre pronto alla battuta che non era riuscito a trattenersi neppure davanti alla regina Elisabetta: era in visita a Milano, in sala dell’Orologio a Palazzo Marino aveva incontrato il sindaco e la giunta, Lupi era uno degli assessori e, da responsabile dell’Arredo Urbano, aveva appena concluso la pavimentazione di piazza Scala. Così non aveva resistito e, sfidando protocolli ed etichette, aveva stretto la mano a Sua Maestà chiedendo: «Do you like piazza Scala?».
Chi lo conosce bene sa quanto gli possa essere costata questa decisione. Per Lupi l’impegno in politica era quasi una malattia, una passione incontrata con alcuni amici di Cl e cresciuta con gli anni, coltivata andando nei mercati a raccogliere voti e nei paesi del suo collegio elettorale (in Brianza) e forse già immaginava lo sbocco: il ritorno a Palazzo Marino, per fare il sindaco. In realtà la possibilità di quella corsa si era affievolita dopo lo strappo con Berlusconi. O forse Lupi pensava ancora al miracolo di una riunificazione della destra. Difficile immaginare a miracoli, ma lui ripete quasi ossessivo: «Si sta solo chiudendo un capitolo». Lupi ha scritto un libro per dire che «la prima politica è vivere». E in questi ultimi giorni, forse, per lui vivere è stato un po’ più duro. Ma intanto ha deciso: basta.
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