MALEDETTE LARGHE INTESE: UN ALTRO GOVERNISSIMO “SALUTATO” A COLPI DI ARMA DA FUOCO

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Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera"

Il presidente del Consiglio Enrico Letta aveva 11 anni, il ministro dell'Interno Angelino Alfano 7, quello delle Politiche agricole Nunzia De Girolamo appena 2. Bambini.
Eppure ieri, alla notizia degli spari davanti a Palazzo Chigi, anche loro devono aver pensato ad altri spari di trentacinque anni fa, più organizzati e letali: la strage di via Fani, il rapimento di Aldo Moro. Come i più anziani presenti alla cerimonia del giuramento al Quirinale, dal presidente Napolitano in giù.

Era un Paese diverso, calato in una stagione di piombo che non c'è più. Ma il contesto era simile: la crisi economica, i partiti che arrancano. E un giorno particolare, l'insediamento di un governo «di larghe intese». Un'occasione che i terroristi vollero celebrare a modo loro, nel 1978. Come ieri Luigi Preiti, che non è un brigatista né coltiva velleità rivoluzionarie. Però anche lui mirava «ai politici».

L'incubo, per qualche minuto, è tornato nei palazzi del potere, finché le prime notizie sull'attentatore - un uomo solo, travolto dallo sconforto - hanno fatto tirare un respiro di sollievo. Non che il fatto sia meno grave, ma i contorni di una nuova aggressione armata allo Stato si sono rapidamente dissolti.

Però si ripresentano puntuali e inevitabili, ad ogni azione violenta. Perché l'Italia ne ha viste e vissute talmente tante (e ha avuto talmente poche risposte sui troppi intrighi che l'hanno attraversata) da rendere quasi automatico il pensiero che qualcuno possa pensare di lanciare l'assalto alle istituzioni.

Oppure che si possa istigare o favorire il gesto di chiunque per avvelenare ulteriormente il clima, inquinare acque già sufficientemente agitate, destabilizzare. Come accadde, ad esempio, vent'anni fa, sempre intorno a palazzo Chigi, nel 1993 già scosso dalle bombe mafiose (e sempre dalla crisi e dall'incertezza politica), col ritrovamento di una Fiat 500 piena di esplosivo.

Una manovra di cui non s'è mai scoperta la vera matrice, rivendicata dall'enigmatica Falange armata. Questo non è solo il Paese che ha vissuto un'aggressione terroristica senza pari nell'Europa occidentale, e che solo dieci anni fa, in un'altra domenica mattina di primavera fu svegliato da una sparatoria su un treno di periferia di cui furono protagonisti gli epigoni delle Brigate rosse che avevano già ucciso Massimo D'Antona e Marco Biagi, quando tutti pensavano che la lotta armata fosse un capitolo archiviato.

È anche il Paese delle bombe senza colpevoli e dei depistaggi degli apparati cosiddetti «di sicurezza», che hanno impedito di fare luce su molti episodi inquietanti e misteriosi. Alimentando la paura dei cittadini.

È il Paese in cui nemmeno un anno fa, quando scoppiò la bomba davanti alla scuola di Brindisi, la mente di tanti corse subito a piazza Fontana e a tutti gli attentati rimasti irrisolti. Anche allora, in breve tempo, si scoprì che c'era solo la regia di un uomo con molta rabbia e nessuna speranza. E tutti dissero «per fortuna».

Ieri, nei palazzi del potere, c'è chi ha paragonato quella tragedia che evocò tristi fantasmi ai colpi di pistola contro i carabinieri. Come un tormento del quale probabilmente non ci libereremo mai. Che non deve avere il sopravvento, ma servire a non sottovalutare nessun segnale di rischio. Anche se nascosto dietro l'atto sconsiderato e isolato di un disperato del nostro tempo.

 

 

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