DAGOREPORT – LO “SCAMBIO” SALA-ABEDINI VA INCASTONATO NEL CAMBIAMENTO DELLE FORZE IN CAMPO NEL…
Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera”
Alle 13.30 Marine Le Pen entra sorridente nell’aula del tribunale a Lione, è in anticipo e ha il tempo di guardarsi intorno con un’aria tra il beffardo e l’incredulo: «Un ricordo di giovinezza, mettiamola così», dice mentre si siede nella panca riservata alla difesa, per evocare i suoi trascorsi di avvocato e soprattutto sottolineare che a differenza del padre lei, di processi per «incitamento all’odio razziale», non ne aveva mai subiti prima.
«Una persecuzione giudiziaria», sostiene. È rinviata a giudizio per le frasi sulle preghiere di strada dei musulmani pronunciate nel dicembre 2010, quando contendeva all’esponente della vecchia guardia Bruno Gollnisch la successione al padre Jean-Marie Le Pen. «Mi dispiace, ma per quelli che evocano sempre la Seconda guerra mondiale, se ci mettiamo a parlare di Occupazione... Parliamone, allora, perché questa è un’occupazione del territorio — aveva detto Marine Le Pen durante un comizio, il 10 dicembre a Lione —, un’occupazione di quartieri nei quali si applica la legge religiosa. Certo, non ci sono carri armati, non ci sono soldati, ma è comunque un’occupazione e pesa sugli abitanti».
Quattro associazioni anti-razzismo cercano di dimostrare che ha voluto paragonare le preghiere di strada islamiche all’occupazione nazista, rendendosi così responsabile del reato di «provocazione alla discriminazione, alla violenza o all’odio». Un’impresa molto complicata.
I legali di parte civile le pongono domande generiche, fuori tema, sul suo rapporto con l’islam: «Che rapporto vede tra uno spacciatore e un musulmano?», «Come fa a identificare un musulmano?», «Che cosa pensa dell’islamofobia?», sperando di metterla in imbarazzo. Invece, allenata da centinaia di talk show, Marine Le Pen risponde dicendo che in quegli anni migliaia di fedeli islamici il venerdì occupavano di fatto «tra 15 e 20 strade» di Francia, facevano entrare solo i non musulmani che dimostravano di abitare in quelle vie, impedivano che si facessero foto o video, e mettevano in pratica un atto politico, una sfida plateale allo Stato, che poi infatti ha proibito le preghiere di strada.
Al legale che la accusa di discriminare un’intera comunità Le Pen risponde abilmente che è lui semmai, a fare confusione: «Pregare in strada non è una razza, un’etnia o una religione, è un comportamento» e lei si sente in diritto — «anzi in dovere» — di criticarlo.
«Basta così, la signora Le Pen può già contare su altri schermi per esporre la sua politica», dirà verso la fine il presidente del tribunale, sancendo che l’imputata ha colto il suo obiettivo: trasformare il processo contro di lei nell’ennesima vittoria mediatica, e in un atto di accusa contro chi contesta non le sue idee, per quanto discutibili, ma il diritto di esprimerle.
Quanto al paragone con l’occupazione nazista, quel 10 dicembre Le Pen chiedeva ai militanti di abbandonare il rivale Gollnisch, di smetterla di guardare al passato, al maresciallo Pétain, alla Seconda guerra mondiale. Proponeva di dare un taglio alla vecchia componente antisemita del Fn e indicava nuovi problemi e un nuovo nemico: l’islam radicale. Frasi centrali nella costituzione del nuovo Front National, e proprio su quell’atto di nascita Le Pen potrebbe ottenere il via libera della giustizia: il procuratore ha chiesto il proscioglimento, perché quelle dichiarazioni «sono di natura politica e non si rivolgono all’insieme della comunità musulmana».
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Comparendo in tribunale la leader del Front National rischiava di essere associata all’impresentabile Jean-Marie. E’ riuscita invece a marcare la differenza — almeno di immagine — con il padre. La sentenza (di probabile assoluzione) è fissata per il 15 dicembre, due giorni dopo il voto che potrebbe darle la presidenza della regione Nord-Picardie, e una ulteriore credibilità politica.
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