DAGOREPORT - CHI L’HA VISTO? ERA DIVENTATO IL NOSTRO ANGOLO DEL BUONUMORE, NE SPARAVA UNA AL…
Goffredo De Marchis per la Repubblica
«Sono uscito dal frigorifero », scherzò Paolo Gentiloni Silverj, conte di origini marchigiane, quando divenne ministro degli Esteri. Adesso è al centro della cucina, chef del dopo Renzi.
Sognava di fare il sindaco di Roma per chiudere «la carriera politica», ma alle primarie capitoline si classificò terzo su tre. Era il 2013. Fu una delusione cocente, si mise in seconda fila.
Alla fine del 2014 arrivò la Farnesina, lo scongelamento. Alla fine del 2016, è abbastanza “caldo” per fare l’ultimo passo e conquistare Palazzo Chigi. Con il suo stile, con una narrazione diversa da quella renziana: toni bassi, calma olimpica, disincanto. Anche se della politica di Matteo Renzi ha sempre condiviso molto se non tutto. Ne è stato in fondo l’ideologo e fu il primo vero big romano a sostenerlo nella cavalcata da Firenze alla presidenza del Consiglio.
Gentiloni ha 62 anni. Abita a Roma nel palazzo di famiglia dove sul citofono tutti i cognomi sono uguali. L’unico Gentiloni che non abita nel palazzo è zio Pippo, gesuita spretato che ha scritto per anni di materie religiose sul Manifesto, il quotidiano comunista. Quando prese i voti la famiglia gli disse «tanto tu non hai più bisogno dell’appartamento». Se lo sono diviso gli altri, cugini e nipoti.
Anche il premier in pectore comincia la sua militanza nella sinistra extraparlamentare avversaria del Pci. Entra nel Movimento studentesco di Mario Capanna e Turi Toscano, rimane nell’Mls (Movimento lavoratori per il socialismo) che confluisce nel Pdup. Gentiloni, laureato in Scienze politiche, sceglie però non la via della politica ma del giornalismo. Scrive sul settimanale Fronte popolare, poi su Pace e guerra, la rivista di Luciana Castellina e Michelangelo Notarianni, fondatori del Manifesto. Nel 1984 la svolta ambientalista che sarà il trampolino per il salto in politica.
Diviene direttore di Nuova Ecologia, periodico di Lega Ambiente. Conosce il verde Francesco Rutelli e Rutelli, quando diventa sindaco di Roma nel 1993, lo prende come portavoce. Da subito, è molto di più. Teorizza la nascita del movimento Centocittà, nucleo della Margherita che unisce i sindaci della nuova stagione dell’elezione diretta, immagina il Partito democratico, un centrosinistra radicalmente scisso dalle tradizioni comuniste, lo sfondamento nel campo del centrodestra.
Diventa assessore al Giubileo, è l’uomo forte della giunta. Il passato lo inchioda all’accusa di essere romano-centrico, di non avere la competenza necessaria per occuparsi del mondo. Accusa spazzata via dai due anni trascorsi a capo della diplomazia, dai rapporti stretti in tutti i Paesi e in particolare in Europa dove il legame con l’omologo tedesco Steinmeier è molto solido. Ha ottenuto alcuni risultati brillanti (il ritorno dei due marò in Italia), ha vissuto situazioni difficili (il caso Regeni ancora appeso a un filo) e per ultimo ha gestito l’imbarazzo per l’astensione italiana all’Unesco su una mozione che nega agli ebrei millenni di storia intorno al Muro del Pianto.
Le radici genealogiche del ministro affondano nello Stato pontificio (è pronipote dell’estensore del patto Gentiloni). Dei romani ha la battuta pronta. Tempo fa un militante vedendolo insieme a Enrico Letta gli urlò: «Tirate fuori le palle». L’ex premier non rispose alla contestazione, Gentiloni invece si voltò e disse: «Adesso? ». Più conte Max che conte vero, in quel frangente.
Il suo campo di azione, fino allo sbarco agli Esteri, è stato a lungo la politica televisiva. Ministro delle Comunicazioni nell’ultimo governo Prodi, ha combattuto Berlusconi e Mediaset e guidato l’avvento di Sky sul nostro telecomando, aprendo di fatto la concorrenza tra Murdoch e il Cavaliere. Ma non ha mai fatto guerre di religione. Fedele Confalonieri lo considera se non un amico, un esperto con cui si può dialogare e chissà che questo non aiuti anche il confronto con Forza Italia sulla legge elettorale.
Renzi, si dice, lo ha scelto perchè non buca il video, perchè non ha carisma, perchè non gli fa ombra. Ma Gentiloni non è un fedelissimo, semmai è un anticipatore del renzismo. La filiazione avviene al contrario: è Renzi ad appropriarsi di una cultura politica “scritta” da Rutelli e Gentiloni. Blair, la terza via, la Neue Mitte, i dem americani sono stati i fari del quasi premier.
L’ossessione di una nuova sinistra lo ha portato sempre a scontri duri con la Cgil e tutto il mondo ex Ds. «Il giorno più bello. Perché abbiamo distrutto il moloch comunista», disse in occasione della vittoria di Renzi per la segreteria. Sposato con Manù, architetto, Gentiloni non ha figli. Ha distribuito il suo affetto ad alcuni “cuccioli” politici: Roberto Giachetti, Ermete Realacci, Michele Anzaldi, il portavoce di Renzi Filippo Sensi e l’ex direttore di Europa Stefano Menichini. Lo adorano come un padre o un fratello. Ricambiati. La sua soddisfazione maggiore è stata veder crescere i “ragazzi”. Adesso ognuno cammina con le proprie gambe. Anche lui, s’intende.
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