NE VEDREMO DELLE BELLE: VOLANO GIÀ GLI STRACCI TRA I TECNO-PAPERONI CONVERTITI AL TRUMPISMO – ELON…
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica”
Meglio solo, d’accordo, che male accompagnato. Eppure, posto quasi all’improvviso dinanzi alla vertigine del potere e insediato nel cuore di quel palazzo così maestoso, vasto e deserto, neppure la sapienza dei proverbi riesce a nascondere l’impressione di solitudine che trasmetteva ieri il nuovo presidente della Repubblica.
Sì, certo: la formazione dello staff, la squadra dei consiglieri, la grandine di auguri, i primi adempimenti, gli impegni anche delicati che da domani non mancheranno. Ma pensare a Sergio Mattarella lì dentro equivale a immaginarselo nelle vesti austere di un eremita, un monaco appartato, un potente costretto a vedersela prima di tutto con se stesso.
Diversi presidenti in un passato più o meno recente hanno accennato a questa condizione di volontaria e oggettiva auto-reclusione; il Quirinale «è una gabbia» se n’è uscito qualche tempo fa Napolitano rispondendo a una bambina; e sempre « La gabbia » s’intitolava un romanzo di fanta-politica che un Grand Commis, Guglielmo Negri, ambientò praticamente in diretta nel travagliato settennato di Cossiga.
Questi ha lasciato negli annali considerazioni quasi agghiaccianti sulla solitudine sperimentata sul Colle e sul peso di quella carica. Mattarella, in verità, sembra più abituato e forse anche più solido di quanto fosse il futuro Picconatore quando De Mita lo spedì lassù.
Ma ieri, durante il giuramento a Montecitorio e poi anche dopo, sia pure o forse proprio in presenza di una quantità di persone, di sguardi e di chiacchiere, tra scampanii, rombi di moto e pale d’elicotteri, spari di cannone, fanfare e scalpitio di cavalli, ecco, fra il neo presidente e il mondo circostante, nel suo più solenne sfolgorio, si avvertiva una specie di vuoto, una lontananza, una diversità perfino sorprendente.
È questa un’epoca di mogli e famiglie per lo più invadenti, e clan di ghiotti conterranei, e cerchi magici. Mattarella non ha più nemmeno un partito; ha perso gli amici con cui nel suo mondo politico e professorale si trovava meglio (Leopoldo Elia, Pietro Scoppola, Nino Andreatta).
In più è vedovo, come a loro tempo arrivarono sul Colle Saragat e Scalfaro. Fino a ieri Mattarella aveva deciso di vivere in una foresteria della Consulta. Una sistemazione anche comoda in un palazzo oltretutto disposto sotto la protezione dei più simpatici angeli trombettieri della Roma marmorea e barocca. Nulla lascia credere che lì fosse infelice. Chi lo conosce lo sa dotato di humour. Ama i gatti (pare battezzati con i nomi di Dante, Boccaccio e Cimabue). Sembra pure che conosca le formazioni delle squadre di lontani campionati. Ma qui ci si ferma.
Nel frattempo i processi di folclorizzazione della classe politica sono andati molto avanti, anzi fin troppo. Barzellette, confessioni, lacrime, euforie, gestacci, seduzioni, travestimenti, secchi d’acqua, gelati. Mattarella è così composto, ovvero possiede una concezione così intensa, rigida e infrangibile del suo decoro, da costituire un’eccezione che rischia addirittura di farsi essa stessa, per estremo paradosso, spettacolare. Ma un po’ solitario è sempre stato. Anche per questo è stato scelto e votato dal Parlamento.
Più timido che freddo. Più austero che scostante. Il più lontano dal conformarsi al motto di Razzi, il più incompatibile rispetto al Salvini desnudo, il più estraneo alla gara dei «birichini ». Di solito i politici - primo fra tutti Berlinguer - si dispiacciono e giustamente delle pseudo-analisi psico-sentimentali che gli buttanoaddosso i giornalisti.
Ma il fatto che Mattarella sembri davvero «nato prima del sorriso », come scriveva l’indimenticabile Fortebraccio, costituisce per gli odierni canoni turbo- ridanciani un’opportunità, ma anche un problema.
Come i suoi capelli così bianchi, che non s’inquadrano nel vieto genere giornalistico del «colore», né riportano all’ennesimo esercizio di quella tricologia politica che ha deliziato gli annali della Seconda Repubblica in un tripudio di riporti, trapianti, mancati shampi e tinture varie.
No, la folta canizie di Mattarella evoca piuttosto, sia pure senza conferma, le conseguenze di una emozione così violenta, di un trauma vissuto così da vicino da doversi risolvere con un impegno che l’ha portato infine sul Quirinale.
Ieri è stato lungamente applaudito. Tutti in aula si aspettavano un segno di saluto, un moto di gioia. Ma niente. Le istituzioni non lo richiedono. In realtà forse sorrideva con gli occhi, che pure mentre entrava e usciva dall’aula lasciavano balenare una certa soddisfazione. Bisognerà abituarcisi.
Fuori dalla Camera, quando era ormai in automobile, come in un film di Fellini il neo-presidente ha avuto un incontro nemmeno troppo ravvicinato con il Trio Medusa, che per l’occasione indossava parrucche biondo platinate. «L’abbiamo fatto ridere!» esultavano a riprova di un evento inaudito. Rideva ormai da lontano, più incredulo che lieto, con Renzi al fianco, meglio solo che male o bene accompagnato.
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