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DAGOANALISI
Il lungo e tormentato passo d’addio del Grande Vecchio delle Due Repubbliche è destinato a lasciare orme profonde e indelebili sull’arida superficie della politica italiana, segnata da una crisi morale e istituzionale devastante. Un deserto attraversato da tempeste finanziarie mondiali, da guerre di religione che ormai si affacciano davanti alle coste della Sicilia e i livelli occupazionali recedono drammaticamente ai minimi storici.
Nell’attesa che sul primo (pieno) e sul secondo (a tempo) doppio mandato presidenziale di Giorgio Napolitano arrivi il giudizio dei tanti editorialisti e costituzionalisti “à la carte” che fin qui hanno condonato al monarca rosso quanto rimproverato invece aspramente ai suoi tanti predecessori (da Cossiga a Scalfaro), la prima domanda da porsi è su cosa lascia in eredità ai suoi autorevoli orfani (in primis Scalfari), e soprattutto al Paese, l’inquilino in uscita dal Quirinale.
A distanza di venti mesi da quel 20 aprile 2013, quando a Re Giorgio fu chiesto dai Partiti morenti e dai Poteri marciti di restare sul trono scaduto, il quadro politico e istituzionale appena accennato non è, di fatto, migliorato.
Anzi.
Da mesi le “urgenti” riforme reclamate a gran voce dal capo dello Stato sono bloccate alle Camere nonostante l’Alta corte a suo tempo avesse a suo dichiarato incostituzionale il Porcellum. La legge elettorale (detta Italicum) che dovrebbe rimpiazzarlo è stata ribattezzata dal suo promotore Calderoli “il Merdellum”, senza che neppure la co-relatrice del provvedimento Anna Finocchiaro, a quanto si legge tra i papabili “in rosa” al Quirinale, battesse ciglio.
Insomma, una porcata bis.
L’abolizione del Senato è un altro pasticcio finito sul binario morto di palazzo Madama. Una falsa rivoluzione, per porre fine al bicameralismo, che sin dalla prima bozza ha fatto rizzare i capelli in testa ai bravi e onesti costituzionalisti.
Insomma, l’ennesima schifezza istituzionale.
Nelle Province abolite si continua ad assumere. E, per fortuna, non si parla più della Riforma della pubblica amministrazione per sbaraccare quel che resta di buono (e sano) anche in quel sistema obsoleto.
E ancora.
I conti pubblici non sono migliorati; e il rosso di bilancio si avvia a nuovi record (negativi).
Il Pil stagna, i consumi si deprimono ulteriormente, la povertà affama i più deboli. Anche il tanto decantato “Sblocca Italia” varato dal parolaio Renzi, fortemente voluto da Re Giorgio a capo di un governo ad incerte “maggioranze variabili” (mai visto neppure ai tempi di Andreotti), non ha avuto gli effetti sperati sul rilancio delle Grandi Opere.
Insomma, una catastrofe economico-sociale.
La “Caporetto della disoccupazione” (copy la Voce.info), del resto, è sotto gli occhi tutti. Meno di quelli del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che nel frattempo incassa l’ennesimo voto di fiducia sul decreto Jobs act, nel silenzio imbarazzato del Quirinale. In passato, soprattutto nell’era dei governi Berlusconi e Letta, Napolitano ha sempre tuonato contro il suo deprecabile uso, che - di fatto -, esautora la dialettica parlamentare.
(Nel giro di nove mesi il governo del parolaio Renzi è già ricorso 29 volte - 16 alla Camera e 13 al Senato -, al voto di fiducia su un totale di 55 leggi licenziate dal Parlamento (52,73%). “Un primato assoluto rispetto ai suoi predecessori”, secondo le stime diffuse dall’associazione Openpolis, vedi tabella allegata).
Dunque, venerdì scorso, non appena l’Istat ha rilasciato i nuovi dati sull’occupazione, il ministro Poletti straparlava ancora di nuovi posti di lavoro mentre i dati Istat dello scorso 28 novembre raccontano una disfatta per chi cerca un posto di lavoro: l’occupazione è diminuita di 55mila unità rispetto a settembre e la disoccupazione è aumentata del 2,7% (9,2% rispetto a ottobre 2013). Ovviamente per i giovani (15-24 anni) i dati sono molto più negativi: tra settembre e ottobre l’occupazione scende dell’1,7% (-2,3% rispetto a un anno fa) e la disoccupazione sale dello 0,6% (+5,6 per cento rispetto a un anno fa).
Di là dagli incensamenti nauseanti a mezzo stampa, chissà se a spingere lo stesso capo dello Stato alla rinuncia di fine anno, oltre alla stanchezza fisica, non sia stata proprio la consapevolezza, la delusione e l’amarezza per aver fallito la missione (impossibile) che gli era stata affidata al momento del bis.
“Sono stato quasi costretto ad accettare la candidatura a una rielezione o a una nuova elezione a Presidente della Repubblica, essendo profondamente convinto di dover lasciare…», confessò pochi giorni dopo la rielezione Napolitano al suo amico Eugenio Scalfari.
Per subito aggiungere, un tantino criptico: “Abbiamo vissuto un momento terribile. Abbiamo assistito a qualcosa cui non avevamo assistito (…). Ho detto di sì per senso delle istituzioni. Ho ritenuto che si trattasse di salvaguardare la continuità istituzionale».
Era forse lo stesso scenario “da paura” che nell’autunno del 2011, con l’Europa che reclamava la sua testa, aveva indotto il capo dello Stato a convocare al Colle il premier Silvio Berlusconi per indurlo a dimettersi una volta approvata la legge di stabilità che fece gridare al golpe il Cavaliere? O no?
Già, Silvio, l’ultimo leader del reame costituzionale “alla Napolitano” ad entrare a palazzo Chigi “a pieno titolo”, cioè legittimato da un ampio voto popolare.
Alle elezioni dell’aprile 2008 la coalizione capitanata dal Polo delle libertà del redivivo Cavaliere otteneva il 47% dei consensi e ampie maggioranze in entrambe le Camere.
E non “per grazia ricevuta” di Re Giorgio. O senza alcun passaggio parlamentare (fiducia&sfiducia), com’è accaduto in seguito per il”tecnico” e senatore a vita Mario Monti (2011-13), Enrico Letta 2013- febbraio 2014) e Matteo Renzi.
salvini calderoli e il presepe di bergamo
Eppure le cronache dei mesi che precedono la rielezione di Napolitano a distanza di qualche settimana dalla vittoria del centro sinistra alle elezioni - addirittura anticipate in febbraio da Re Giorgio con vittoria zoppa del centro-sinistra di Bersani senza maggioranza al Senato -, non raccontano nulla di veramente pauroso.
Sul piano dell’allarme economico si registrava soltanto il declassamento del rating dell’Italia (BBB+) da parte dell’agenzia Fitch. Mentre si riaccendeva lo scontro tra politica-giustizia dopo la condanna in primo grado del Cavaliere per il caso Unipol.
Ben altri, a ben guardare nelle storie quirinalizie, sono stati davvero i “momenti terribili” che secondo Napolitano l’avrebbero accompagnato nella sua ultima, lunga e avventurosa azione politica. Un percorso esemplare iniziato nel dopoguerra a Napoli nelle fila del Pci di Togliatti.
(Il Pd di oggi, guidato da Renzi, in cui la soave Elena Boschi può permettersi il lusso di affermare che “Fanfani era meglio di Berlinguer”. Un partito di “anime morte” (fuga in massa degli iscritti) che alle ultime regionali ha disertato in massa le urne).
Basta ricordare solo la nomina di Oscar Luigi Scalfaro nell’Annus horribilis 1992. Mentre il Parlamento stava votando il successore di Cossiga e le prime inchieste di tangentopoli lambivano le segreterie dei partiti (Dc e Psi), a Capaci la mafia uccideva il giudice Falcone e sua moglie. A seguire le bombe stragiste di Roma e Firenze con il dubbio che si sia aperta una trattativa tra lo Stato e la Mafia.
Tant’è, per la storia.
Non è però una “fuga” dalla realtà, una resa incondizionata, il passo d’addio del capo dello Stato. Re Giorgio II si è reso conto che a volte la rettitudine privata, la moral suasion di cui ha pure abusato, non sempre possono ispirare l’azione del monarca pur “illuminato”.
Per dirla con Platone, non basta un capo di Stato ricco di saggezza per piegare alla ragione quel che resta delle forze politiche e un Parlamento senza una vera maggioranza di governo. Un esecutivo e il suo premier che tirano a campare nell’attesa di rimpiazzare Napolitano con un direttore d’orchestra sul podio del Quirinale meno autorevole e invasivo di Giorgio II. E, magari, dotato di qualche esperienza musicale nella banda comunale di Rignano sull’Arno.
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