DAGOREPORT - ‘’RESTO FINCHÉ AVRÒ LA FIDUCIA DI GIORGIA. ORA DECIDE LEI”, SIBILA LA PITONESSA. ESSÌ,…
DAGOANALISI
Il cordiale “botta e risposta” tra il sommo Eugenio Scalfari e Demerito Napolitano sulla Grande Imbroglio istituzionale non ricuce lo strappo tra il fondatore de “la Repubblica” e l’ex capo dello Stato di cui Dagospia aveva dato conto le scorse settimane nel silenzio assoluto degli altri media. Anzi.
L’ultimo e amichevole scambio di lettere sulle pagine del quotidiano diretto da Ezio Mauro rivela che - nonostante alcune messe a punto di Bellanapoli e di là dai toni amichevoli delle missive - sull’abolizione del Senato, avanzata in Parlamento dal cazzone Renzi - si sia allargato il solco dell’incomprensione tra i carissimi (o ex) amici liberal-democratici, Eugenio e Giorgio.
E su un tema fondamentale, la riforma elettorale (Italicum) e costituzionale (abolizione del Senato), che per Scalfari “equivale ad una riscrittura del contesto costituzionale che soltanto una nuova Costituente potrebbe affrontare”.
In pratica si tratta di uno stravolgimento pericoloso della Magna Carta che non ha precedenti nella nostra storia repubblicana. A parte la legge-truffa del 1952 voluta da De Gasperi che, comunque, prevedeva un premio di maggioranza alla coalizione o al partito che avesse superato il 50% dei consensi.
“Con l’alibi della governabilità e della stabilità prima arrivò la legge fascista Acerbo e poi ci furono i tentativi autoritari del generale De Lorenzo e del capo della P2, Ligio Gelli”, ricorda preoccupato l’ex ministro andreottiano, Paolo Cirino Pomicino, che fa appello alla rivolta in aula ai suoi ex amici democristiani e al Capo dello stato, Sergio Mattarella.
Tant’è.
Nella sua replica dell’altro giorno, anche Scalfari ricorda a Demerito Napolitano, che occorre risalire alla legge Acerbo di “mussoliniana memoria” per trovare qual cosa di peggio del progetto scassa-costituzione suggerito dal piccolo Ceasescu di Rignano sull’Arno.
Una riscrittura delle principali regole democratiche del gioco ad personam, con un uomo solo al comando (Renzi), che in altri tempi avrebbe fatto rabbrividire non soltanto gli onesti costituzionalisti (compreso il defunto Leopoldo Elia citato infingardamente e a sproposito da Bellanapoli), ma lo stesso ex dirigente migliorista del Pci che per nove anni ha occupato più male che bene il Quirinale.
“Riforme intoccabili”, come ammoniva invece l’ex Re Giorgio nella primogenita lettera spedita al “Corriere della Sera” all’inizio di agosto. La sua missiva era una sorta di ultimatum alle istituzioni e ai partiti (”un punto fermo è stato ormai posto”; “non è pensabile si torni indietro”).
orfeo gen adinolfi foto mezzelani gmt
Gaffe a ripetizione tanto da costringerlo alle solite piccate messe a punto. Dei diktat improponibili, insomma, che avevano provocato soltanto le giuste e risentite reazioni del presidente di palazzo Madama, Pietro Grasso, e della minoranza del Pd.
Ora, c’è sempre del mistero nella “decadenza” degli uomini di stato, ma neppure Eugenio Scalfari sembra darsi una ragione sul perché, proprio nella parte finale del suo secondo mandato presidenziale, il suo “amico” Giorgio - politico tra l’altro prudente e circospetto nell’attraversare il deserto che da Botteghe Oscure l’ha portato al Colle più alto -, abbia favorito la nascita (o aborto istituzionale) del governo Renzi per abbracciarne poi il suo Grande Imbroglio costituzionale (Patto occulto del Nazareno).
QUENTIN TARANTINO CON FRANCA E ROBERTA ALLA TAVERNA FLAVIA
Qualcuno può sospettare che l’Ingegnere capo del Grande Imbroglio istituzionale e magari a capo della stessa intentona che nel gennaio dello scorso anno ha portato alla cacciata del premier in carica Enrico Letta per rimpiazzarlo con lo scassa-costituzione Renzi, sia stato proprio il nostro Bellanapoli.
Un capo dello Stato che, “ricattato” o no dai fratelli del “giglio tragico” riuniti alla “Taverna Flavia” (leggi le inquietanti intercettazioni rivelate da “il Fatto” di Marco Travaglio), è stato lo sponsor o il padrino - a seconda dei gusti giornalistici -, dell’ascesa a palazzo Chigi del cazzone Renzi. E senza alcun passaggio parlamentare.
Forse venendo meno alla cautela e al controllo che per oltre mezzo secolo hanno scandito la lunga marcia al potere del’ex Re Giorgio oggi costretto all’esilio di palazzo Madama.
A volte, però, sosteneva lo scrittore Arturo Graf, “ci sono taluni ossessi di prudenza, che a furia di volere evitare ogni più piccolo errore, fanno dell'intera vita un errore solo”.
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