LA VOCE DEL COLLE: AMATO A PALAZZO CHIGI A CAPO DI UN GOVERNO POLITICO

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Marzio Breda per "Corriere.it"

Quali sono, e di che natura, «i termini» entro i quali Giorgio Napolitano ha accolto sabato l'appello dei partiti, accettando la rielezione? Com'è ovvio non si tratta di «termini» di calendario per annunciare fin d'ora l'orizzonte temporale che intende assegnarsi, perché se comunicasse già adesso quando si congederà dal Colle (presumibilmente prima della scadenza del 2020) verrebbe meno a un presupposto costituzionale: quel mandato è pieno, dura sette anni e resta nella sua libera disponibilità interromperlo.

I «termini» cui alludeva l'altra sera il presidente appena riconfermato sono dunque altra cosa. Sono cioè «le premesse» che lui ha indicato ai leader dei partiti come base minima per aderire alla richiesta di restare al suo posto. In testa a tutto c'è l'intimazione che «ognuno faccia il proprio dovere» per superare questo tormentato passaggio politico. In una parola: che ciascuno si assuma, come è stato promesso, la «responsabilità» di dare un governo al Paese. E che onori l'impegno.

Ecco il significato centrale del discorso che il capo dello Stato pronuncerà oggi davanti alle assemblee parlamentari, al momento di giurare. Ora, si sa che i messaggi d'insediamento hanno di solito il valore di manifesti programmatici del settennato e sono quindi piuttosto lunghi e articolati. Stavolta però Napolitano non avrà bisogno di spiegarsi più di tanto: gli italiani e i partiti lo conoscono ormai bene, sanno a quali valori e principi si ispiri nell'interpretare la suprema carica repubblicana.

Per cui cercherà di far capire il percorso istituzionale che si apre per lui e per il Paese. Anche per sgombrare dal dibattito pubblico alcune letture fuorvianti - quando non esplicitamente insultanti - su come è maturato il suo bis al Quirinale che lo hanno irritato moltissimo. A cominciare da quelle interpretazioni che, nel tentativo di delegittimarlo, evocano «manovre oscure», «inciuci inconfessabili», addirittura «un golpe».

Non c'è stato invece - chiarirà - nulla di tutto questo. Ogni passaggio si è svolto «in assoluta limpidezza» e comunque non esiste e non esisterà mai alcuna forma di «dittatura Napolitano». Così, per contrastare concretamente l'idea che sia lui a decidere tutto, il governo che è pronto a tenere a battesimo entro la settimana, dopo un rapido giro di consultazioni domani, sarà un governo politico con qualche «innesto» tecnico, in grado di durare almeno un paio d'anni. Sulla formazione del quale (lista dei ministri, programma, priorità) le decisioni spetteranno ai partiti e soltanto a loro. Insomma: nelle sue intenzioni non dovrebbero esserci impossibili replay dell'esecutivo di Mario Monti né altri gabinetti assimilabili alle formule cosiddette «del presidente».

Certo, per individuare una soluzione stabile dovrà confrontarsi con le volontà delle forze politiche, il capo dello Stato. E in particolare con l'indeterminato e clamorosamente diviso fronte del partito democratico, che vorrebbe un governo «a non elevato tasso politico», dunque un mix, un ibrido, per non compromettersi troppo con i propri elettori, ostili a ipotesi di «larghe intese» con il Pdl di Silvio Berlusconi.

Decisivo sarà il profilo del potenziale premier, per il quale non è un mistero che Napolitano vorrebbe un uomo della caratura di Giuliano Amato. Sarebbe adatto per la sua lunga esperienza nella politica (versante socialista) e nelle istituzioni, per la competenza in campo economico, per l'elevato standing internazionale, per il tratto dialogante che lo renderebbero votabile dal centrodestra (mentre la Lega, che ha già respinto la candidatura, resterebbe fatalmente fuori dalla maggioranza).

Altra variabile di rilievo legata all'impegno dei partiti, quella di mettere in cantiere - insieme e parallelamente all'esecutivo, per corroborarne la tenuta - la «convenzione per le riforme» ipotizzata da Pier Luigi Bersani nei giorni del preincarico fallito. Stavolta a parlarne è il Pdl, pronto a proporla suggerendo anche che s'incardini sul lavoro istruttorio compiuto dal comitato di «saggi» insediato dal Quirinale. Con il sottinteso che a presiederla dovrebbe essere un proprio uomo.

 

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