
DAGOREPORT - COSA FRULLAVA NELLA TESTA TIRATA A LUCIDO DI ANDREA ORCEL QUANDO STAMATTINA…
di Tina A. Commotrix per Dagospia
Da Gelli ad Agnelli passando per il leader referendario Mariotto Segni e per il tecnocrate Bruno Visentini l'Italia non è soltanto un bel paese di santi, poeti e navigatori, ma - a quanto pare -, anche di addetti all'ingegneria costituzionale.
Un'attività progettuale che oggi vede all'opera anche due arzilli geometri di generazioni assai diverse ma entrambi determinati nel rimettere mano addirittura a quelle che sono considerate le sacre fondamenta dello Stato.
Il Patto Renzusconi siglato nella sede romana del Pd, infatti, è figlio "bastardo" secondo il professor Sartori, del giovane Superbone Matteo Renzi e della Volpe finita nella pellicceria di Arcore, Silvio Berlusconi.
Riuscirà l'inedita coppia di capomastro del Pd e di Forza Italia che della loro idea di riforma, sbagliando, ne hanno fatto un dogma, nell'impresa in cui negli ultimi quarant'anni hanno fallito le migliori teste d'uovo della prima Repubblica?
Ah saperlo!
La lista di quanti sono rimasti feriti sotto le macerie del cantiere Grandi Riforme sta lì a dimostrare che il suo cammino parlamentare e assai accidentato: dal liberale con il pizzetto, Aldo Bozzi, al costituzionalista Leopoldo Elia; dall'ex presidente "rossa" della Camera, Nilde Jotti, all'ex segretario della Dc Ciriaco De Mita. Senza dimenticarsi di Massimo D'Alema, anche lui finito schiacciato nella fabbrica (parlamentare) in cui andavano riscritte le regole del gioco.
E pochi ricordano che all'inizio degli anni Ottanta anche due personaggi "extraparlamentari" assai diversi ma del calibro di Licio Gelli e dell'Avvocato, si mossero quasi in sintonia per dare una rinfrescatina alle pagine - a sentir loro un tantino ingiallite -, della magna carta scritta e approvata a stragrande maggioranza a Montecitorio da un'assemblea costituente (22 dicembre 1947).
Due tentativi anch'essi abortiti sul nascere.
Il "Piano di rinascita democratica" messo a punto dal maestro venerabile della loggia P2 travolse Gelli e il suo seguito di affiliati provocando pure la caduta del governo Forlani, l'arrivo per la prima volta a palazzo Chigi di un non democristiano, Giovanni Spadolini, la messa al bando di parlamentari e boiardi. Nonché il crac del Banco Ambrosiano e della Rizzoli.
Un vero terremoto politico-istituzionale
A Gianni Agnelli, tutto sommato, andò meglio.
Nel presentare al capo dello Stato dell'epoca, Sandro Pertini, la sua riforma dello stato elaborata con il solito professor Visentini si è sentito ribattere dal rude presidente-partigiano che certe faccende andavano lasciate alle forze parlamentari. E "franchezza per franchezza" Pertini fece osservare a Gianni Agnelli che lui non si sarebbe mai permesso di esibire un piano industriale per la Fiat. Essì, che l'azienda automobilistica di Torino (in crisi) in quegli anni ne aveva bisogno.
Dunque, dopo l'euforia iniziale anche l'impresa ingegneristica della ditta Renzi&Berlusconi oggi appare - com'era del resto facilmente prevedibile -, tutta in salita. E carica d'insidie nei due rami del Parlamento.
Di qui, appunto, i primi interrogativi: ce la farà l'insolita coppia a coronare l'ardita impresa? O faranno, invece, la fine (triste) dei falliti riformatori del passato?
E quanto da giorni si chiedono pure i giornaloni dei Poteri marci e i loro editorialisti (e costituzionalisti) "a la carte". I professori che, con rare eccezioni - Sartori e Amis sul "Corriere della Sera"; Rodotà su "la Repubblica" -, si azzuffano per sostenere le loro tesi spesso contraddittorie e bislacche.
Mostrandosi disponibili, alcuni, a fare strame degli stessi principi della Carta (e delle ultime sentenze della Corte) al solo scopo di servire l'ultima causa (più o meno ignobile) in nome della politica e non della scienza giuridica.
Immaginando, alcuni, per oltre vent'anni (vedi Panebianco&C sul Corrierone), un bipolarismo senza bipartitismo solo "pe' tigna", come si dice a Roma. Non volendo mai ammettere che la politologia non è una scienza esatta da servire su un piatto d'argento ai falsi editori che gli pagano lo stipendio. E che nessun sistema elettorale è capace di assicurare la governabilità di un Paese il giorno dopo l'apertura delle urne.
Il che la dice lunga sullo stato di salute di un'Accademia che scende dalla cattedra per mettersi al servizio dell'ultimo Ras politico che si affaccia alla ribalta della cosiddetta seconda Repubblica dopo averne annunciato la morte (presunta) della prima a mezzo stampa. L'ultimo caso è quello del pur bravo Roberto D'Alimonte che insegna alla Luiss e ispira il sindaco di Firenze.
Tant'è.
Nel giro di pochi giorni il giornale di riferimento di Matteo Renzi, "la Repubblica" di Ezio Mauro, ha ospitato ben tre pesanti articoli (Scalfari, Messina e Rodotà ) su quello che il sommo fondatore Eugenio ha bollato come un "imbroglio", peggiore della legge truffa suggerita dalla Dc negli anni Cinquanta.
E l'altro giorno un altro collaboratore del quotidiano di Carlo De Benedetti, e ascoltato "consigliore" (alla pari di Scalfari) di Re Giorgio Napolitano, nel segnalare che la nuova legge all'esame della Camera "non rispetta la più importante delle indicazioni" contenute nella sentenza della Corte che ha bocciato il Porcellum (forzature maggioritarie attraverso liste bloccate e assenza delle preferenze) si domanda - allarmato - cosa accadrebbe se le nuove norme fossero nuovamente impugnate presso l'Alta corte o se - aggiunge - il capo dello Stato non firmasse il provvedimento rinviandolo alle Camere.
Di qui la "moral suasion" dell'inquilino del Colle più alto sulle parti in causa, auspicata dallo stesso Rodotà , che nelle ultime ore è riuscito a rimettere sui binari parlamentari l'Italicum che rischiava di finire su un binario morto ancor prima di arrivare al voto dell'aula.
Ps.
Sull'annosa questione delle preferenze come ha ricordato puntualmente il prof.Sartori sul Corriere, si assiste a uno strano balletto (istituzionale) tra chi le vorrebbe reintrodurre e quanti sono fermamente contrari a una soluzione adombrata nella stessa sentenza della Corte Costituzionale che ha cassato il Porcellum. Una disputa, purtroppo, tra bari.
Con il referendum Segni del 1991, sponsorizzato dai poteri forti (Agnelli e Cuccia in testa), più che colpire l'eventualità (reale) che il voto fosse manipolato - soprattutto dalla mafia al Sud -, s'intendeva dare una spallata forte al sistema della partitocrazia.
Cosa che accadrà , puntualmente, l'anno dopo con l'avvio cruento e devastante di Tangentopoli. Anche allora i giornali dei Poteri marci ignorarono (con rare eccezioni) che alle elezioni del 1987 (le ultime con le preferenze multiple) soltanto il 30% degli italiani esprimeva sulla scheda il nome dei propri candidati (vedi tabella allegata).
In questi ultimi vent'anni nell'indifferenza dei referendari alla Segni, il cosiddetto voto di scambio favorito dalle preferenze multiple, non è morto. Anzi, è resuscitato nelle assemblee parlamentari con la compravendita di senatori e deputati. Gli stessi parlamentari che già erano già stati nominati dai partiti con le liste bloccate e senza possibilità alcuna di scelta da parte da parte dei cittadini.
E non c'è ancora uno straccio d'ingegnere costituzionale che può mettere in dubbio che togliendo le preferenze non si sia spogliato pure l'elettore di poter votare per il proprio candidato (magari non mafioso).
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