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Vittorio Sabadin per La Stampa
Nel dicembre del 1970, a bordo dell'aereo che lo stava portando a Washington, Elvis Presley chiese a una hostess dei fogli di carta intestata dell'American Airlines per scrivere a Richard Nixon una delle più strampalate lettere mai ricevute da un presidente degli Stati Uniti.
Lottando disperatamente con la sintassi e ponendo le maiuscole dove capitava, l'idolo dei teenager americani esordiva in modo formale: «Caro Signor Presidente, Innanzi tutto vorrei presentarmi: sono Elvis Presley e l'ammiro e Ho un Grande Rispetto per la sua funzione». Seguivano cinque pagine piene di stravaganti considerazioni politiche sui valori dell'America, minacciati da nemici occulti e determinati: i comunisti, innanzi tutto, ma anche la droga, gli hippies, gli studenti, le Black Panthers e, ultimi ma non meno pericolosi, i Beatles.
In questa lotta che il Paese combatteva, Elvis voleva fare la sua parte. Nella lettera, resa nota in un libro anticipato dal «Daily Mail», chiedeva dunque di essere nominato da Nixon agente segreto nel Federal Bureau of Narcotics and Dangerous Drugs, e di poter ricevere la tessera che gli agenti mostravano nei film prima di aprire il fuoco contro gli spacciatori. Non c'è dubbio che il cantante fosse un esperto della materia: ingeriva in continuazione anfetamine e barbiturici e per dare un duro colpo al traffico di narcotici gli sarebbe bastato entrare nel suo bagno e buttare via le migliaia di pillole che custodiva, e che lo uccisero il 16 agosto del 1977.
Ma per convincere Nixon, Elvis usò altri argomenti: aveva studiato a lungo, scrisse, l'abuso di droghe e anche le tecniche di lavaggio del cervello dei comunisti. E poi lui era un cantante, nessuno dei nemici dell'America lo considerava un suo nemico, e avrebbe dunque potuto agire senza ingenerare sospetti.
Appena atterrato, Elvis consegnò personalmente la busta al cancello della Casa Bianca e attese una risposta in albergo, dove si era registrato con il nome di Jon Burrows. Quando i consiglieri di Nixon gli portarono la lettera, nello Studio Ovale si tenne una riunione davvero singolare. Dopo animate discussioni, Egil Krogh, che tre anni dopo sarebbe finito in carcere per il Watergate, suggerì al presidente di ricevere Presley: non poteva fare danni e lo avrebbe aiutato a conquistare i voti dei giovani.
Elvis si presentò nella West Wing con un abito nero di velluto e una camicia dal colletto aperto, e con l'abituale cinturone dalla enorme fibbia dorata e decorata con diamanti. «Vesti un po' selvaggiamente, figliolo», osservò Nixon. «Lei deve portare avanti il suo show e io il mio», rispose prontamente il cantante. Parlarono a lungo della situazione del Paese e di chi lo minacciava. I Beatles, disse Presley, erano tra i peggiori nemici, perché venivano negli Stati Uniti, prendevano i soldi e tornavano a Londra solo per denigrare l'America.
Nixon gli concesse una tessera d'onore di agente federale e Presley gli mostrò orgoglioso le altre tessere di decine di dipartimenti di polizia che aveva collezionato. Con il nuovo badge, nei mesi successivi, non catturò nessun nemico. Fermò invece decine di motociclisti e automobilisti che correvano troppo, e che tornavano a casa con una storia incredibile da raccontare.
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