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Paolo Mastrolilli per “la Stampa”
L’ultima cosa al mondo che voleva fare Barack Obama era bombardare l’Iraq, imitando i suoi tre predecessori. Ma come ha detto il presidente di Eurasia Ian Bremmer, «ci sono più ragioni per intervenire ora contro l’Isis, di quante ce ne fossero nel 2003 per rovesciare Saddam». La prospettiva dell’Iraq in mano ad un gruppo terroristico più estremista di al Qaeda è un incubo inaccettabile per la Casa Bianca, e l’ha costretta a questa svolta strategica fondamentale.
I motivi chiave della retromarcia li hanno spiegati tre autorevoli rappresentanti dell’amministrazione, durante una conversazione off the record con i giornalisti. Finora la strategia di Washington si era basata sull’incapacità immediata dell’Isis di abbattere il governo iracheno, e gli americani avevano usato la richiesta di aiuto militare da parte di Baghdad come merce di scambio per ottenere la sostituzione del premier al Maliki con un leader sciita più inclusivo.
Una volta compiuto questo passo, il nuovo esecutivo capace di dialogare con sunniti e curdi avrebbe ottenuto l’assistenza necessaria a debellare i terroristi. Ma l’avanzata delle ultime 24 ore dell’Isis verso Erbil, capitale della regione curda, ha cambiato tutto. Gli Usa non potevano consentire la caduta dei loro alleati storicamente più fedeli in Iraq, e hanno deciso di intervenire.
Le alte fonti dell’amministrazione hanno spiegato che le operazioni sono limitate al paese dominato un tempo da Saddam, per difendere gli interessi americani nella zona settentrionale di Erbil, e quella meridionale di Baghdad, ma non hanno escluso attacchi in altri luoghi chiave, come le dighe assalite dai terroristi. In altre parole, l’intervento riguarda l’intero Iraq, e continuerà finché l’Isis rappresenterà una minaccia: «Le operazioni proseguiranno fino a quando saranno necessarie». Aerei e droni Usa, infatti, già sorvolano Erbil 24 ore al giorno.
Obama ha accelerato l’intervento per evitare il crollo del paese, anche perché sul piano politico ritiene di essere vicino ad ottenere quello che chiedeva: lo stesso ayatollah sciita al Sistani ha sollecitato la sostituzione di Maliki, e i consiglieri del presidente si aspettano che ciò avvenga forse già entro domani sera.
Gli aiuti militari, soprattutto i missili «Hellfire», stanno già arrivando in Iraq da settimane. Le consegne però aumenteranno una volta che in carica ci sarà un governo disponibile al dialogo, necessario per togliere all’Isis il sostegno delle tribù sunnite, tenere insieme il paese, e lanciare la controffensiva che secondo Washington deve essere guidata dalle forze locali.
iraq l'avanzata dei jihadisti 9
In Siria un simile intervento non era avvenuto perché fra gli oppositori non c’erano interlocutori affidabili, come dimostra proprio la storia dell’Isis, che sarebbe stato aiutato dai raid americani.
Allora erano in molti a frenare l’attacco contro Assad, inclusi europei e russi, ma ora non ci sono difensori forti dei terroristi, a parte i loro finanziatori occulti in Arabia e Qatar. La preoccupazione però è che le operazioni ordinate da Obama, che per ora escludono il ritorno dei soldati Usa sul terreno, non bastino e arrivino troppo tardi per sbaragliare l’Isis.
iraq l'avanzata dei jihadisti 7
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