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Marco Gorra per “Libero Quotidiano”
La forza propulsiva dell’ottava legislatura del Parlamento europeo si conferma essere il cecchino. I franchi tiratori che due settimane fa avevano fatto mancare una settantina di voti a Martin Schulz per l’elezione a presidente del Parlamento ieri hanno concesso il bis: la ratifica della nomina di Jean-Claude Juncker al vertice della commissione europea è passata con 422 voti, una abbondante sessantina in meno del preventivato.
Dinamiche diverse (il cecchinaggio di Schulz fu dovuto alla maretta interna ai liberali mentre quello di Juncker, trainato dai socialisti spagnoli,ha operato più su base politico- territoriale) ma identico risultato: il patto tripartito Ppe-Pse-Alde su cui si regge la grande coalizione che deve governare l’Europa da qui al 2019 non ingrana. Il problema non è da poco.
schulz martin official portrait
Prima di tutto perché si mette a nudo la fragilità di un’intesa che era nata sotto auspici di massime coesione e solidità in nome della comune battaglia contro la montante onda euroscettica, e poi perché non lascia intravedere niente di buono per il prosieguo della legislatura.
Pensare che un blocco di partiti che ha faticato persino a votarsi da solo i primi due candidati frutto del proprio accordo possa trovare la forza e le motivazioni per intraprendere un percorso politico di grande rottura come quello che, a parole, la nuova Commissione si prefigge di portare avanti diventa azzardato.
Come pensare di mettere d’accordo un ensemble così eterogeneo e litigioso su temi quali l’allentamento delle linee economiche rigoriste, l’allargamento della platea di Stati membri cui mettere in carico la gestione delle politiche migratorie, la sistemazione definitiva del mercato interno (per tacere di quello estero, vedi alla voce Ttip) e sugli altri capitoli della ambiziosissima agenda che i tre partiti si sono dati? Difficile, quasi impossibile.
Ben più probabile, viste le premesse,che la presidenza Juncker si veda presto costretta a rivedere al ribasso le proprie ambizioni, abbandonando l’obiettivo del grande cambiamento di verso in favore di una più realistica tutela dell’esistente. E sì che a parole era tutta un’altra musica.
Nel discorso precedente la votazione, Juncker era infatti volato altissimo, promettendo svolte sulla crescita e l’occupazione («Ci sarà un programma da 300 miliardi in tre anni»), sulla flessibilità (ferme restando le condizioni poste dai patti, perché «la crescita ottenuta col debito è un fuoco di paglia») sugli assetti dell’Unione (vagheggiata la fondazione di un «governo politico» in grado di«incoraggiare e sostenere » le riforme).
MARINE LE PEN b c ee afccb d c ffd
Juncker si era persino spinto ad annunciare la rottamazione di uno dei simboli più odiati dell’euro- rigore, la troika, promettendo una sua revisione in senso «democratico» (forse senza più coinvolgere nemmeno il Fmi) e giurando che prima di procedere ad eventuali nuovi piani di salvataggio si farà una valutazione dell’impatto sociale dei medesimi.
Tanto si sentiva sicuro, Juncker, da concedersi anche qualche siparietto con gli avversari. Beccato dai deputati di Ukip e Front National in seguito al passaggio sull’euro («La moneta unica non divide l’Europa, ma la protegge »), il presidente della Commissione aveva replicato a Marine Le Pen dicendosi «onorato» di non essere votato da lei e dal suo partito. Poco dopo, in risposta ai fischi che arrivavano dalla zona Farage, Juncker affrontava di petto i contestatori chiedendo, in inglese, «dove sarebbe l’Inghilterra senza Europa?».
Il problema è che non è dato sapere nemmeno dove sarebbe l’Europa. Una prima indicazione potrebbe arrivare oggi al vertice dei capi di Stato e di governo chiamato ad esaminare le nomine,ma le probabilità che lo stallo parlamentare ricada anche su questa partita sono molto elevate. Tanto da rendere possibile lo scenario peggiore: oggi fumata nera e riconvocazione del vertice tra due settimane.
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