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Emanuele Lauria per “La Repubblica”
L’ultima arma poggiata sul tavolo è un referendum per chiedere agli iscritti del Pd siciliano se sia giusto continuare a sostenere il governo Crocetta. La richiesta l’ha presentata un gruppo di militanti e il segretario regionale del partito Fausto Raciti non boccia l’iniziativa: «Una larga parte del gruppo dirigente mi invita a prenderlo in considerazione. Devo tenerne conto».
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E’ già l’ora X, per il presidente della «rivoluzione», il primo presidente della Regione di sinistra eletto direttamente dai siciliani, l’ex sindaco di Gela simbolo dell’antimafia che proponeva la rottura con un passato ingombrante (i due predecessori Cuffaro e Lombardo nei guai giudiziari per i rapporti con Cosa nostra) e con alcuni facili cliché: lui, comunista e gay, doveva rappresentare per forza il cambiamento.
Oggi, a distanza di meno di due anni dall’insediamento, Crocetta è in una condizione di isolamento. Attaccato da gran parte della sua maggioranza, dai sindacati e dalle organizzazioni di categoria, messo nel mirino dai sindaci dell’Anci che hanno scritto a Napolitano per chiedere aiuto «di fronte alla disastrosa situazione della Regione».
Barcolla, sotto questi colpi, il sogno rappresentato da questo governatore sui generis, capace inizialmente di trascinare due personalità come Battiato e Zichichi nella sua giunta (salvo liberarsene sei mesi dopo) e di saltare da una trasmissione tv all’altra annunciando le sue riforme: su tutte, quella delle Province, che tutt’oggi è lontano dall’essere attuata.
Dopo un inverno terribile, con trentamila famiglie senza stipendio a causa della bocciatura della Finanziaria regionale da parte del commissario dello Stato, ecco un’estate bollente segnata dal flop del piano giovani, con 50 mila persone in corsa per 800 tirocini retribuiti beffati da un sistema informatico andato in tilt.
A quel punto, il plauso per le azioni di rottura portate avanti da Crocetta (tetto alle pensioni d’oro, definanziamento degli enti di formazione professionale del sistema- Genovese, revoca delle autorizzazioni ai padroni delle discariche sospettati di aver pagato tangenti, attacco ai precari che prendevano il sussidio malgrado un patrimonio milionario o condanne gravi) ha lasciato spazio, nel Pd e nei partiti alleati, a una domanda: dopo la demolizione, quando comincia la ricostruzione?
Quesito che brucia, con il peggiorare dei dati economici (l’indice di povertà relativa è salito al 27 per cento), con l’assenza di provvedimenti strutturali di riforma (nella formazione 4 mila persone rischiano il posto) e con le continue manifestazioni di piazza di precari e disoccupati.
Quesito che ha cominciato a porsi pure il luogotenente di Renzi in Sicilia, Davide Faraone. Che ha preso a invocare un azzeramento della giunta nella quale, pure, i renziani sono ampiamente rappresentati, a differenza dell’ala cuperliana del segretario Raciti e che invece non ha alcun assessore.
Ma le due correnti, nell’Isola, restano distanti: i renziani, per far dimettere i propri esponenti dalla giunta, chiedono che i cuperliani rinuncino ad alcune postazioni di spicco in Assemblea regionale. Questi ultimi non si fidano e rispondono picche. Crocetta, in questo clima, si è irrigidito: «Chi chiede rimpasti vuole solo fermare la rivoluzione. Io non cedo ai vecchi califfi».
La questione ora è sul tavolo del vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini al quale Raciti venerdì ha fatto un report del caso Sicilia. Guerini, probabilmente, incontrerà il governatore in settimana.
FRANCO BATTIATO AL PARLAMENTO EUROPEO
Crocetta è costretto a giocare in difesa anche davanti alle polemiche sui protagonisti della sua rivoluzione, dagli alti burocrati che sono gli stessi dell’era cuffariana e lombardiana ai leader politici a lui più fedeli che non sono proprio alle prime armi: il senatore Beppe Lumia è in parlamento dal 1994, Salvatore Cardinale fu ministro con D’Alema.
«La rivoluzione si fa pure con qualche compromesso», replica il presidente. Come finirà? Difficilmente con il voto anticipato: una mozione di sfiducia sulla carta avrebbe largo consenso ma comporterebbe lo scioglimento dell’intera Assemblea, con nuove elezioni per un numero limitato di seggi (venti in meno). Trovare 46 deputati disposti a votarla, oggi, sarebbe la vera rivoluzione.
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