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Concetto Vecchio per “la Repubblica”
«Mi suiciderei piuttosto che votare uno di quei due!». «Chi scelgo tra Trump e Clinton? Esiste un’altra candidata che mi affascina: Jill Stein, la candidata dei Verdi. C’è altro oltre a Trump e Clinton». «Trump? Forse è meno peggio della Clinton, però se è quello che esprimono oggi gli Stati Uniti non è una cosa straordinaria ».
La prima frase l’ha detta Manlio Di Stefano, il capo degli affari esteri del M5S; la seconda l’influente membro del direttorio Alessandro Di Battista; la terza il fondatore Beppe Grillo. Prima del voto, si capisce. Dopo mesi di profilo basso e prudentissime dissimulazioni («il M5S ha sempre seguito la non ingerenza esterna», precisò la linea Di Battista in tv a Politics), i grillini, di fronte alla valanga di The Donald, ora suonano a tutto volume la fanfara del trumpismo.
Grillo paragona l’8 novembre al Vaffa Day; la deputata Ruocco chiede le dimissioni della Boschi per avere tifato per la Clinton; l’esperto di riforme Toninelli benedice «la rivolta di un popolo contro Wall Street», mentre Di Battista, con inusitato aplomb istituzionale, si è affrettato a dire di non avere fatto endorsement «per rispetto». L’entusiasmo deborda a tal punto che Grillo chiama il nuovo inquilino della Casa Bianca “Pannocchia”: praticamente un amicone con cui scolarsi una birra al pub.
Improntata alla più rigorosa neutralità era anche la linea dei berlusconiani, ad eccezione della triade Antonio Razzi, Giovanni Toti e Daniela Santanché (con l’aggiunta di Briatore che definì Trump «una delle persone più democratiche che io conosca »). Il candidato repubblicano in questi mesi è stato spesso visto come il Silvio d’America, l’outsider che sbaraglia l’establishment di Washington, eppure Berlusconi ha sempre mantenuto le distanze liquidandò Trump come «un incrocio tra Grillo e Salvini».
L’ordine di scuderia quindi era farsi notare il meno possibile. Però, siccome a un certo punto il Cavaliere fece filtrare la sua ventennale amicizia con Hillary e Bill, ai primi di marzo Renato Brunetta confessò: «Piuttosto voterei Clinton». Il capogruppo al Senato, Paolo Romani, disse a Tommaso Labate del Corriere della Sera: «Uno come Trump non lo voterei per nulla al mondo».
silvio berlusconi versione trump
Maurizio Gasparri la mise sull’estetica: «Trump mi crolla sui capelli, quel riporto lo rende inaffidabile. Sembra creato dalla Clinton per far vincere lei, comunque preferisco occuparmi di politica, non di folklore». Tranquilli: a risultato acquisito Gasparri ha mitragliato una dozzina di tweet giubilanti. Si andava da “grande dolore per la sconfitta Clinton”, seguita da ventitré faccine sorridenti a «i perdenti rosicano, imbecilli!». Brunetta ha esultato come un ultrà in curva: «Ha vinto la democrazia e hanno perso i poteri forti, gli stessi che sostengono Renzi». Persino l’educato Romani non si è trattenuto più: «Il sogno americano ha vinto ancora». L’ex ministro Quagliariello li ha bollati come «i trumpisti del giorno dopo».
Salire sul carro del vincitore, al pari della dietrologia e del complottismo è del resto una tipica malattia italiana, come ebbe già a notare Flaiano. Non appena un leader mostra di assurgere a una carica presidenziale si sgomita per entrare a corte. Fu così col carro della Repubblica dopo il fascismo; col carro di Craxi dopo il congresso del Midas; non parliamo poi del carro stipato all’inverosimile di Berlusconi negli anni d’oro della Seconda Repubblica.
Non si trovava un posto libero nemmeno su quello dell’attuale premier, quando dopo la vittoria alle primarie del 2013 larga parte della dirigenza bersaniana e lettiana si scoprì felicemente renziana. Un atteggiamento che non risparmia nessuno, come sanno anche quegli esponenti della sinistra italiana che tempo fa furono accusati di salire finanche «sul carro di Tsipras».
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