DAGOREPORT - 'STO DOCUMENTO, LO VOI O NON LO VOI? GROSSA INCAZZATURA A PALAZZO CHIGI VERSO IL…
Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera”
«I dissensi per l’elezione del capo dello Stato ci sono sempre stati, anche nell’ultima occasione; nel ’92, per esempio, la mia candidatura venne bocciata» racconta Arnaldo Forlani dall’alto dei suoi quasi 90 anni e della lunga esperienza di presidente del Consiglio, ministro e segretario della Dc.
In tempi di reminiscenze democristiane, anche il processo sulla presunta trattativa fra Stato e mafia, in trasferta a Roma, si addentra nella storia della spartizione delle poltrone tra le correnti scudocrociate. Sul banco dei testimoni, Forlani è chiamato a ricordare l’avvicendamento al ministero dell’Interno tra Vincenzo Scotti e Nicola Mancino, oggi imputato di falsa testimonianza.
Era il 1992, anno di elezioni politiche e presidenziali, di cambio di governo (da Andreotti a Giuliano Amato) e di bombe mafiose; nonché di contatti occulti tra le istituzioni e i boss, secondo l’accusa. «Per il Quirinale, dopo la strage di Capaci, prevalse la scelta istituzionale di votare Oscar Luigi Scalfaro», spiega l’allora segretario dc impallinato da 70 «franchi tiratori».
Quel che però interessa i pubblici ministeri è il ricambio al Viminale, tra Scotti e Mancino, nel governo Amato varato a fine giugno ‘92. Per l’accusa servì a impedire che il primo continuasse sulla linea dura antimafia perseguita fino a quel momento insieme al ministro della Giustizia Martelli, mentre Forlani ne dà una lettura tutta interna al partito cattolico:
sergio mattarella e nicola mancino
«L’indicazione di Mancino venne dall’ufficio politico composto da me, dal presidente del partito De Mita, dai capigruppo Bianco e Mancino, e dai vicesegretari Lega e Mattarella, eletto da qualche giorno, giustamente e meritatamente, presidente della Repubblica».
Con una punta d’orgoglio l’ex leader democristiano cita il nuovo inquilino del Quirinale, che proprio per il ruolo ricoperto 23 anni fa compare nella lista testi dell’imputato Mancino.
Dopo la tanto discussa deposizione di Giorgio Napolitano, dunque, c’è la concreta possibilità — quando toccherà esaminare le fonti di prova delle difese — che la corte d’assise debba tornare sul colle più alto per raccogliere la testimonianza di un altro capo dello Stato. A meno di una rinuncia degli avvocati di Mancino, su accordo delle altre parti. Ma è prematuro fare previsioni.
NICOLA MANCINO E GIORGIO NAPOLITANO
Le spiegazioni fornite da Forlani sono fin troppo semplici per i pm: «Avevamo introdotto la regola dell’incompatibilità tra incarico governativo e parlamentare, perciò chi veniva nominato ministro doveva lasciare il seggio. Scotti era contrario, così al Viminale nominammo Mancino, poi accettò di dimettersi da deputato e gli proponemmo gli Esteri; lui disse prima di sì e poi di no. Ebbe un atteggiamento un po’ contraddittorio, e alla fine si dimise da ministro. La sola cosa chiara fu la sua volontà di non lasciare la Camera».
Ricostruzione solo politica, in cui Gava voleva diventare capogruppo al Senato al posto di Mancino, «considerato autorevole e dotato della fermezza e risolutezza necessarie per fare il ministro dell’Interno».
Invano i pm Teresi e Tartaglia evocano l’emergenza mafiosa di quella stagione (il delitto Lima, gli allarmi di Scotti che Andreotti bollò come «patacca», le stragi di Capaci e via D’Amelio) e i provvedimenti di contrasto in via di approvazione, che consigliavano di lasciare Scotti dov’era. «Fu una decisione normale, presa in assoluta serenità e concordia — insiste il testimone —. Il partito aveva deciso di azzerare i vecchi incarichi ministeriali in virtù della norma sull’incompatibilità, ma questo non significava non proseguire nella linea del contrasto duro alla criminalità organizzata. Nessuno decise alcun ammorbidimento».
Così ripete, a dispetto dell’ipotesi accusatoria, l’ex Coniglio Mannaro (definizione del giornalista Gianfranco Piazzesi), che non appare in difficoltà come nella famosa deposizione milanese al cospetto del pm Di Pietro, ai tempi di Mani Pulite. Più di vent’anni fa. «Allora dovevo difendere i poveri segretari amministrativi della Dc, oggi la situazione di Mancino mi sembra più chiara», commenta dopo tre ore di udienza, Forlani, quando l’ex ministro dell’Interno e collega di partito lo raggiunge per salutarlo. «Ciao Arnaldo, grazie»; «Ciao Nicola, stammi bene».
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