PUTIN INVADE GLI STATI UNITI PASSANDO DAL “NEW YORK TIMES” E SPUTTANA OBAMA: “NON SIETE ECCEZIONALI”

1. LA LEZIONE DI PUTIN AGLI USA «NON SIETE COSÌ ECCEZIONALI»
Massimo Gaggi per "Corriere della Sera"

John McCain lo giudica «un insulto all'intelligenza di tutti gli americani». Un altro senatore repubblicano, Jim Inhofe, si dice nauseato mentre il democratico Robert Menendez vorrebbe addirittura vomitare dopo aver letto lo scritto di Putin. L'articolo pubblicato ieri dal New York Times - un «op-ed» nel quale il presidente russo fissa la posizione di Mosca nel negoziato sulla Siria, pretende di impartire lezioni di rispetto della legalità internazionale agli Stati Uniti, invoca Dio e il Papa e deride la filosofia dell'«eccezionalismo americano» richiamata da Barack Obama nel suo recente discorso alla nazione - è stato preso come uno schiaffo in tutto il Paese.

Tagliente, scritto con una prosa magistrale, come ammettono molti lettori nei commenti registrati dal quotidiano newyorchese (insultato da altri per aver dato spazio a un dittatore nemico degli Usa), l'articolo ha provocato una diffusa indignazione. Perché, come ha ricordato anche il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, ma senza calcare troppo la mano, viene dal leader di un Paese che sfrutta a suo vantaggio la libertà di stampa americana, ma non ne concede altrettanta nel suo Paese.

Un presidente che si dimostra alquanto ipocrita quando pontifica su diritti civili sistematicamente violati nel suo Paese: «Dice che noi americani non siamo eccezionali e che quando chiediamo la benedizione del Signore non dovremmo dimenticare che Dio ci ha creati uguali» risponde al sarcasmo di Putin la democratica Nancy Pelosi. «Bene, mi auguro che valga anche per i cittadini russi, anche per i gay» perseguitati dal regime di Mosca.

Per Obama la sortita di Putin è stata un pugno nello stomaco (sia pure avvolto nel guanto dell'affermazione che «tra me e il presidente Usa c'è un rapporto di fiducia crescente»). Oltre a sostenere che è molto pericoloso spingere un popolo a sentirsi eccezionale, Putin, sorvolando sui sistematici veti russi che paralizzano l'Onu, afferma che l'America, minacciando un uso unilaterale della forza, si mette dalla parte del torto davanti alla comunità internazionale, viola le leggi e rischia di far fare alle Nazioni Unite la brutta fine della Società delle Nazioni (fondata dopo la Prima guerra mondiale, fallì con lo scoppio della Seconda, ndr).

Contro ogni evidenza assolve, poi, di nuovo Assad per l'uso dei gas che attribuisce, invece, ai ribelli. I quali adesso, aggiunge in un passaggio alquanto oscuro, potrebbero attaccare anche Israele.

Anziché reagire replicando colpo su colpo sullo stesso terreno, la Casa Bianca ha preferito cercare di inchiodare Putin alle sue responsabilità: «Molte delle cose scritte nell'articolo» dicono i collaboratori del presidente Usa, «sono irrilevanti. Quello che ora conta davvero è che finalmente la Russia si è presa un grosso impegno: il suo fedele alleato siriano ha ammesso di avere un grosso arsenale chimico e Mosca si è impegnata a smantellarlo e distruggerlo. È su questo che verrà giudicato il presidente russo», è questo il risultato che ha promesso e che il mondo si attende.

Vista dagli Stati Uniti la sortita del leader russo sul principale quotidiano degli Stati Uniti sembra essere stata una mossa controproducente: se il suo obiettivo era quello di spingere gli Usa a ritirarsi dal ruolo di gendarme del mondo, deridere l'eccezionalismo americano è servito solo a provocare una reazione di segno opposto. E, umiliando inutilmente Obama, già accusato dai repubblicani di essere troppo accomodante con Mosca, lo obbliga a essere più esigente nel negoziato.

Perché allora Putin ha deciso di pubblicare questo articolo, recapitato al New York Times attraverso un'agenzia di pubbliche relazioni, la Ketchum, pagata da Mosca per promuovere investimenti americani in Russia? Forse perché, più che agli americani (dei quali può avere male interpretato lo stato d'animo), il presidente russo voleva parlare alla comunità internazionale.

Per molti anni la Russia è stata costretta a un ruolo di secondo piano: ha giocato di rimessa, dicendo sempre e solo «no». Ora che sulla Siria è riuscito a riprendere l'iniziativa e a conquistare una certa centralità, Putin prova a proporsi come punto di riferimento internazionale non solo ai Brics (le economie emergenti, dalla Cina al Brasile) come ha fatto al G-20 di San Pietroburgo, ma anche a molti altri Paesi: quelli che, insofferenti della leadership americana, osservano oggi con compiacimento le difficoltà di Obama.


2. "NON PROTEGGIAMO DAMASCO, MA IL DIRITTO INTERNAZIONALE

Vladimir Putin per "The New York Times", pubblicato da "la Repubblica"
(© 2013 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi)

Gli ultimi avvenimenti concernenti la Siria mi hanno spinto a rivolgermi direttamente agli americani e ai loro leader politici. È un'azione importante in un'epoca in cui la comunicazione tra le nostre società è carente. I rapporti tra noi hanno attraversato diverse fasi. Ci siamo fronteggiati durante la guerra fredda. Ma siamo stati anche alleati un tempo e, assieme, abbiamo sconfitto i nazisti. Venne allora istituita l'organizzazione internazionale universale, l'Onu, per impedire che una devastazione simile tornasse a verificarsi.

I fondatori dell'Onu compresero che è opportuno che le decisioni sulla guerra e sulla pace vengano prese solo all'unanimità e, con il consenso dell'America, venne sancito nello Statuto delle Nazioni Unite il diritto di veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Questa previsione profondamente saggia ha favorito la stabilità dei rapporti internazionali per decenni. Nessuno auspica che l'Onu subisca il destino della Lega delle Nazioni, crollata perché non esercitava un reale ascendente. È possibile che questo accada se paesi influenti, scavalcando l'Onu, intraprendono un'azione militare senza previa autorizzazione del Consiglio.

Il potenziale attacco contro la Siria a opera degli Usa, nonostante l'opposizione
di massimi leader politici e religiosi, incluso il Papa, causerebbe ulteriori vittime innocenti e un'escalation del conflitto che potrebbe estendersi ben oltre i confini siriani. L'attacco scatenerebbe una nuova ondata di terrorismo. Potrebbe minare gli sforzi multilaterali per risolvere il problema del nucleare iraniano e il conflitto israelo-palestinese, destabilizzando ulteriormente il Medio Oriente e il Nord Africa. Potrebbe squilibrare l'intero sistema internazionale di ordine e legalità.

La Siria non è di fronte a una battaglia per la democrazia, bensì a un conflitto tra governo e opposizione in un paese multireligioso. Sono pochi in Siria i paladini della democrazia, ma ci sono più che a sufficienza combattenti di Al Qaeda ed estremisti di ogni genere in lotta contro il governo. Il dipartimento di Stato Usa ha rubricato come organizzazioni terroristiche il Fronte Al Nusra e lo Stato islamico dell'Iraq e del Levante, che combattono a fianco dell'opposizione.

Questo conflitto interno, alimentato dalle armi straniere fornite all'opposizione, è uno dei più sanguinosi del mondo. I mercenari arabi che combattono in Siria e i militanti provenienti dai paesi occidentali, persino dalla Russia, sono per noi fonte di grave preoccupazione. E se rientrassero nei nostri paesi con l'esperienza acquisita in Siria? In fin dei conti dopo aver combattuto in Libia gli estremisti si sono spostati in Mali. È una minaccia per tutti noi.

Fin dall'inizio la Russia ha promosso un dialogo pacifico che consentisse ai siriani di elaborare un compromesso per il loro futuro. Non stiamo proteggendo il governo siriano, bensì il diritto internazionale. Dobbiamo ricorrere al Consiglio di Sicurezza e credere che tutelare l'ordine e la legalità nel mondo complesso e turbolento di oggi sia uno dei pochi modi per impedire che i rapporti internazionali scivolino nel caos. La legge è sempre legge e dobbiamo seguirla, volenti o nolenti. In base al diritto internazionale l'uso della forza è consentito solo per autodifesa o su decisione del Consiglio di Sicurezza. Qualunque
altro comportamento costituirebbe un atto di aggressione.

Nessuno dubita che in Siria sia stato usato gas venefico. Ma è giustificato credere che non sia stato usato dall'esercito siriano, bensì dall'opposizione, per provocare l'intervento dei loro potenti Stati-patroni stranieri. Non si possono ignorare i rapporti secondo cui i militanti stanno preparando un nuovo attacco, stavolta contro Israele.

È allarmante che l'intervento militare nei conflitti interni di paesi stranieri sia diventato una pratica comune per gli Usa.

Rientra nell'interesse a lungo termine dell'America? Ne dubito. Nel mondo l'America viene sempre più considerata da milioni di persone non un modello di democrazia, ma un paese che conta solo sulla forza bruta. Ma l'uso della forza si è dimostrato inefficace e senza scopo. L'Afghanistan vacilla e nessuno può prevedere cosa succederà dopo il ritiro delle forze internazionali.

La Libia è divisa in tribù e clan. In Iraq la guerra civile prosegue e ogni giorno si contano decine di morti. Negli Usa molti vedono analogie tra l'Iraq e la Siria e si chiedono perché il loro governo voglia reiterare errori recenti. Non conta quanto siano mirati gli attacchi, le vittime civili sono inevitabili, inclusi gli anziani e i bambini, che gli attacchi hanno l'intento di proteggere.

Il mondo reagisce chiedendosi: se non si può contare sul diritto internazionale, allora bisogna trovare altri modi di garantirsi la sicurezza. Così sono sempre più numerosi i paesi che cercano di acquisire armi di distruzione di massa. È logico: se hai la bomba, nessuno ti toccherà. A parole si afferma la necessità di rafforzare la non proliferazione, quando in realtà viene minata. Dobbiamo smettere di usare il linguaggio della forza e tornare sulla via della civile soluzione diplomatica e politica dei conflitti.

Negli ultimi giorni è emersa una nuova opportunità di evitare l'intervento militare. Gli Usa, la Russia e tutti i membri della comunità internazionale devono mettere a frutto la disponibilità del governo siriano a porre il proprio arsenale chimico sotto il controllo internazionale affinché venga distrutto.

A giudicare dalle dichiarazioni del Presidente Obama gli Usa la considerano un'alternativa all'intervento militare. Apprezzo l'interesse del Presidente a proseguire il dialogo con la Russia sulla Siria. Dobbiamo collaborare per mantenere viva questa speranza, come concordato al vertice G8 in Irlanda del Nord a giugno, e ricondurre il dibattito verso il negoziato. Se riusciremo a evitare l'uso della forza contro la Siria migliorerà l'atmosfera degli affari internazionali e si rafforzerà la fiducia reciproca. Sarà un successo comune che aprirà la porta alla cooperazione su altri temi critici.

La mia azione e il mio rapporto personale con il presidente Obama sono caratterizzati da una fiducia crescente. Ho analizzato con attenzione il suo discorso alla nazione di martedì. La tesi dell'eccezionalità americana che sostiene quando afferma che la politica degli Stati Uniti «è quello che differenzia l'America, quello che ci rende eccezionali» mi trova piuttosto in disaccordo.

Esistono paesi grandi e paesi piccoli, ricchi e poveri, paesi di lunga tradizione democratica e paesi che stanno trovando la strada verso la democrazia. Anche le loro politiche sono diverse. Siamo tutti diversi, ma quando chiediamo la benedizione divina non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha creati uguali.

 

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