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Sebastiano Messina per “la Repubblica”
Dei quaranta candidati che oggi vengono elencati sui giornali solo uno, Pierluigi Bersani, s’è fatto vedere a Montecitorio. Entrato alla buvette, l’ex segretario del Pd si è concesso volentieri alle domande dei giornalisti, con il disincanto divertito di uno che non ha la minima speranza di diventare il candidato di Matteo Renzi: «Io al Quirinale? Continuate a favoleggiare, voi giornalisti. Finché non si arriva sotto alla votazione si fa così, lo capisco…».
Degli altri 39, non si è visto nessuno. Walter Veltroni è dalla parte opposta del pianeta, in Cile, dove sabato parlerà al “Congresso del futuro”. Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, è in missione ad Addis Abeba. Romano Prodi è a Bologna, ma sta facendo le valigie per un viaggio che per la fine del mese – quando cominceranno le votazioni decisive – lo porterà in Cina.
Sergio Mattarella era al palazzo della Consulta, impegnato a convincere i giudici della Corte dell’inammissibilità del referendum sulla chiusura dei piccoli tribunali (e Giuliano Amato era anche lui lì, ad ascoltarlo). Mario Draghi era a Francoforte, e da lì raffreddava le voci sulla sua candidatura con un’intervista a Die Zeit : «È naturalmente un grande onore, ma non è il mio lavoro».
Aveva ragione Andreotti, che era l’unico – oltre a Emilio Colombo – ad aver partecipato a tutte e 12 le elezioni presidenziali: «Il vero segreto per essere eletti è essere presenti con la propria assenza». La storia gli dava ragione. De Nicola si rinchiuse nella sua villa di Torre del Greco, negandosi persino a De Gasperi. Einaudi si tenne lontano da Montecitorio, e proprio Andreotti dovette raggiungerlo nella sua villa al Tuscolano per annunciargli toccava a lui.
Cossiga partì per il Portogallo, alla vigilia delle elezioni presidenziali che lo avrebbero visto vincitore. Carlo Azeglio Ciampi restò nel suo ufficio al ministero di via XX Settembre, finché Luciano Violante e Nicola Mancino non lo raggiunsero per comunicargli che era il decimo presidente. E Giorgio Napolitano, che pure era senatore a vita, passeggiava tranquillo per le vie di Roma mentre i segretari di partito cercavano il nome giusto (che alla fine sarebbe risultato il suo).
Le assenze, dunque, in questi giorni parlano più delle presenze. Piero Fassino è a 700 chilometri di distanza, nella sua Torino. Anna Finocchiaro è al suo posto in Senato, sommersa dai 40 mila emendamenti all’Italicum presentati dal solito Calderoli – che in realtà è uno dei suoi principali sponsor.
Pietro Grasso, sorvegliato dai corazzieri, si è solennemente trasferito a palazzo Giustiniani, dove ieri sera è stato visto entrare a passo svelto Pier Ferdinando Casini (per incontrare chi, è rimasto un mistero).
giuliano amato adriano panatta enrico letta gianni rivera
E siccome è presto per tirare le somme di questa delicatissima partita, chi ha senso dell’ironia preferisce scherzarci su: «Dovremmo fare come in Libano – diceva all’ora di pranzo Nicola Latorre a Luigi Zanda, nei corridoi di Palazzo Madama – ed eleggere un generale: gente seria, affidabile…». Il capogruppo, sorridendo, ha fatto finta di prenderlo sul serio: «Nicola, tu sei la destra della sinistra…».
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