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Laura Cesaretti per "il Giornale"
L'orizzonte temporale che indica Matteo Renzi, da una Leopolda così strabordante di gente da far seriamente preoccupare gli addetti alla sicurezza, e da costringere ad allestire in extremis schermi anche all'esterno, punta a rassicurare il governo Letta. Propone «un patto», il sindaco di Firenze (e in pectore d'Italia). Magari non ancora un «patto con gli italiani», ma intanto col popolo del Pd, che è diventato il suo e che con lui sembra finalmente sentirsi un po' meno reietto e un po' più «popolo eletto», con un suo Mosè (come lo chiama il ministro Del Rio) a guidarlo.
Dice: «Vi propongo quattro punti, e quando torneremo qui tra un anno verificheremo se siamo riusciti a fare qualcosa per realizzarli». Un anno: niente strappi, niente corsa al voto anticipato: «Leggo che sarei pronto ad andare alle elezioni, come se fossi ingrifato di correre alle urne, come se il nostro obiettivo fosse di andare subito a misurarci».
Invece no: «C'è un Parlamento, tra i più giovani d'Europa», e c'è un governo che ha promesso grandi riforme: «Mettiamoli alla prova». Dario Franceschini, ministro di Letta e neo-supporter di Renzi, applaude e certifica: «Matteo ha spazzato via i sospetti, il governo dura», il 2015 può restare il traguardo di Letta. A patto che i risultati si vedano, e sempre che a staccare la spina anzitempo non sia Silvio Berlusconi. Renzi cita, senza nominarla, Daniela Santanchè: «Ho letto un'autorevole dirigente del Pdl che dice: âNon dobbiamo perdere di vista l'obiettivo: il nostro nemico è Renzi, non Alfanoâ. Bene, noi non dobbiamo permettere agli altri di definirci».
Insomma, come spiegano i suoi, il sindaco «non ha alcuna intenzione di regalare a Berlusconi il tempo di riorganizzare il centrodestra contro il ânemicoâ Renzi». Se il tentativo di Letta di smontare dal governo il Pdl, annettendosi gli alfaniani di qui a fine anno, non riuscirà , il sindaco giocherà d'attacco. Altrimenti, si andrà al 2015, con un programma serratissimo di cui il «suo» Pd sarà «custode». Parla di riforme, Renzi, di Europa, di lavoro, e non ha paura di mettere in cima alla lista anche il grande tabù di una sinistra allevata a pane e manette: la giustizia.
«La storia di Silvio ci dimostra che la riforma della giustizia è ineludibile», dice. La platea sbarra gli occhi e trattiene il respiro. Ma «Silvio» è Scaglia, l'ex patron di Fastweb sbattuto per un anno in carcere e poi prosciolto da ogni accusa. «Vi sembra normale che un partito di sinistra non provi vergogna di fronte ai tanti innocenti finiti in galera?», chiede. E sottintende che normale non è, ma che finora lo è stato.
Sulla legge elettorale promette guerra al Porcellum, spazzando via i dubbi del giorno prima, e giura: «Mai più inciuci, mai più larghe intese», facendo esplodere in un boato di sollievo la platea. Propone un modello chiaro e semplice da capire, quello dei sindaci («Si sa chi ha vinto, e quello è il responsabile di quel che si fa, e se non si fa è colpa sua»), e lascia intendere - senza dirlo - che accompagnare quella legge elettorale con una riforma presidenzialista non è tabù neppure quello. Vuol spazzare via le Provincie e il bicameralismo perfetto, e chiede autocritica alla sinistra per l'errore del Titolo V e dell'esasperazione regionalista.
D'altra parte, ripete, «cambiare idea» è spesso necessario, e «la sinistra che non cambia si chiama destra». Promette un «piano sul lavoro», vuol rivoluzionare e sfoltire le «2.160 norme» che ne impastoiano il mercato e fan venire «i capelli dritti» a chi volesse investire in Italia. E tira un ceffone pure ai sindacati: «Vogliamo che funzionino, che ci sia una legge sulla rappresentanza e che anche loro, come i partiti, certifichino i loro bilanci».
Si irrita subito Stefano Fassina, che attacca: «Le proposte economiche di Matteo hanno una rilevanza finanziaria pari a zero». Il sindaco fa spallucce e procede a tirare le orecchie pure ai renziani («La prima corrente da rottamare è quella») e ai neoparlamentari: «Non vi paghiamo perché cambi la vostra vita, ma perché cambiate la nostra». E sdogana senza pudori l'idea proibita a sinistra, così berlusconiana, del Capo: «Leadership non è una parolaccia, se hai la certezza che sei importante ma non indispensabile».
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