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Pierangelo Sapegno per "la Stampa"
Arriva alle 9 del mattino, con il suo rigato grigio, la camicia bianca e la cravatta celestina a pois, togliendosi gli immancabili occhiali da sole, prima di sfuggire senza una parola a fotografi e cameramen di mezzo mondo. Francesco Schettino non è diverso da quello che abbiamo sempre visto, come un uomo in bilico, persino inadeguato a questa tragedia più grande di lui. Quando, nel pomeriggio, i giudici leggono il suo interminabile capo di imputazione, 40 minuti di accuse e vergogne, a un certo punto, sta per chiedere con voce sommessa se deve stare ancora in piedi. «Può star seduto, se vuole».
I capelli sono crespi, quasi luccicanti, il vestito è abbottonato elegantemente, il suo silenzio è quasi fiero, ma è lo sguardo che tradisce, gli occhi appesi, un po' feriti. In fondo siamo italiani, brava gente. Ma nei giorni dello scandalo kazako e degli insulti razzisti di Calderoli, questo processo racchiuso sul palco del Teatro Moderno di Grosseto, diventa anche l'amara rappresentazione di un Paese, con i suoi 32 morti affogati per un "inchino", con le sue storie di ignavia e di vergogna, e con questi suoi personaggi, così tristi alla fine, e così banali, accerchiati dai giornalisti tedeschi e americani e dalle telecamere di Al Jazeera.
Schettino sale le scale saltando i gradini a due a due, mentre qualche cronista lo insegue: «Comandante! Comandante!». La ragazza moldava Domnica Cemortan, un'altra delle attrici per caso di questa tragedia, invece, si ferma davanti a qualsiasi telecamera. E' diventata un testimone dell'accusa. Dicevano che era la donna di Schettino («Querelo chi lo scrive»).
Ha una camicia bianca con bottoncini neri, una gonna azzurra con spacco sopra il ginocchio, scarpe bianche col tacco, capelli biondi appena pettinati dal parrucchiere, e quando arriva e vede tutta questa massa di fotografi, fa subito un sorriso: «Excellent».
Poi comincia: «Non è vero che sono una ballerina, come avete scritto. Ero la traduttrice sulla nave». E soprattutto, «non ho mai detto di amare Schettino». Ma non aveva detto che era un eroe? «Dico che mi fa strano vedere una sola persona sui banchi degli imputati. Guidava una nave, non un'auto». E come mai era sul ponte al momento dell'incidente? «Sono stata invitata per vedere il panorama dell'isola. Ero un passeggero come gli altri».
Non era la donna di Schettino? «No. A questa domanda non rispondo più». Parla in inglese, commenta: «Buona domanda». Dice che sì, aveva portato una borsa al comandante, ma non sa che cosa c'era dentro, in quei momenti ci si aiutava tutti: «Io ho tirato fuori dall'acqua un inglese e un francese». In aula, Schettino non la guarda mai. Tiene gli occhiali da sole nella mano sinistra e l'Iphone nella destra. Durante la pausa sta attaccato al telefonino. Lei sta seduta a metà aula. Sorride ogni tanto ai fotografi e ai giornalisti.
La difesa di lui chiede il patteggiamento, poi i giudici leggono il capo di imputazione, violazione infinita di codici, regole, commi, convenzioni, paragrafi, procedure, sempre «trasgredendo le buone regole dell'arte marinara» e omettendo un'altra infinità di compiti, misure, disposizioni, fino all'abbandono della nave.
E' come se la vergogna ci crollasse addosso, assieme a questo processo di numeri infiniti, con 4228 persone offese, di cui 31 giuridiche, 242 parti civili rappresentate da 62 avvocati, più altre 60 in attesa di essere ammesse, e poi 68 faldoni, 31 dei quali relativi all'incidente probatorio, tutti disposti ordinatamente su due scaffali, come se tanto ci volesse per archiviare nella memoria una tragedia dalla cronaca incredibile. In altri 4 scatoloni le copie forensi di hard disk su scatola nera e computer di bordo, e in aula sfileranno 700 testimoni: 338 per le parti civili, 575 per l'accusa (molti coincidono) e 96 chiamati dalla difesa.
Dentro a tutti questi numeri, Schettino si rifugia al bar con i suoi 3 amici napoletani, e dice «che strano che la nave sia ancora al Giglio». Poi scappa di nuovo, con lo sguardo di un bambinone. Ci viene in mente la telefonata che fece nella notte del 13 gennaio a sua moglie: «Fabì, la mia carriera è finita...». Peccato che c'erano anche 32 morti...
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