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Tommaso Ciriaco per ‘La Repubblica’
Sel si spacca. E lo fa nel modo più fragoroso e doloroso possibile, lacerandosi sul decreto Irpef. Una conta interna sancisce il sostegno agli ottanta euro di Matteo Renzi e in Aula il gruppo tiene, ma un minuto dopo incomincia il redde rationem. Il prezzo pagato è altissimo: Nichi Vendola accetta le dimissioni da capogruppo di Gennaro Migliore, il solco tra le due anime si allarga ancora. Con la formazione di sinistra a un passo dal precipizio, solo un miracolo potrà evitare nuove singole defezioni, o peggio, una consistente
scissione.
Quando va in frantumi una storia, la cornice è un mix di grida e silenzi. Come la fotografia del Transatlantico, teatro per l’intero pomeriggio di mille capannelli e altrettanti duelli. L’ala dialogante — che punta a un progressivo avvicinamento al Pd — prova a difendere la linea politica. Vendola, però, stavolta non media.
La riunione di gruppo trasformata in corrida ha lasciato il segno, per questo accetta il passo indietro di Migliore. E rilancia: «La differenza tra essere renziani e non renziani è quella che passa tra combattere ed arrendersi. Sel, nonostante il fascino dei vincitori, non può dichiararsi filo-renziana».
NICHI VENDOLA E FABRIZIO BARCA
Il momento di massima frizione risale a qualche ora prima. Migliore riunisce i deputati e propone di votare per il dl del governo. L’aria è tesissima, con un sms Vendola chiede al capogruppo e a Nicola Fratoianni di favorire la mediazione, spendendosi per l’astensione in Aula. Il presidente dei deputati rimette il mandato, vuole combattere la battaglia fino in fondo. Tutti, pure Fratoianni, gli chiedono di ripensarci. Con uno scrutinio al fotofinish (17 o 18 sì, 15 no e un’astensione) prevale la linea “migliorista”. È il caos.
La linea del gruppo, ormai, non ricalca quella del partito. Vendola non lo nega, anzi a porte chiuse è durissimo: «Non possiamo far sequestrare la linea politica a un gruppo parlamentare, non potete disporre a piacimento del mandato di una comunità — quasi urla — e trovo inaccettabile fare battaglia politica sui giornali». Il nodo, secondo il leader, è lo «scivolamento » progressivo nell’area di governo.
Le “colombe” non ci stanno. Sottovoce c’è chi traccia paralleli sproporzionati, evocando il Pcus o addirittura lo stalinismo. A registratori accesi i toni sono comunque duri: «Accettare le dimissioni non è stato un buon passo verso la ricomposizione — si lamenta Fabio Lavagno — noi abbiamo solo discusso nel merito e scelto democraticamente».
Ragionamenti simili a quelli di Alessandro Zan e Ileana Piazzoni: «Siamo tutti attoniti, dobbiamo capire se è garantita al gruppo la libertà di esprimersi». Di diverso avviso Massimiliano Smeriglio: «È stato meglio così, non potevamo morire di eutanasia... ».
Oggi inizia la “fase due”. Toccherà alla segreteria nazionale indicare un nuovo capogruppo — c’è già chi fa il nome di due “non allineati” come Arturo Scotto e Celeste Costantino — anche se tutti gli scenari restano aperti. Anche un clamoroso reincarico a Migliore, a patto che rispetti la linea del partito.
«Nella chiarezza si può ripartire perfino con il ritorno di Gennaro », sostiene Fratoianni. I malumori, però, attraversano i dialoganti. Ormai non escludono nulla, neanche una scissione che traghetti un gruppetto di 10-12 deputati nel Misto, primo passo verso il Pd.
Vendola non si scompone, comunque: «A tutti dico “va dove ti porta il cuore”, ma spero che la comunità rimanga il più possibile integra». Intanto si confronta per un’ora con Gianni Cuperlo e saluta le parole di Pierluigi Bersani, quando dice: «Un percorso di avvicinamento tra Sel e Pd è maturo, spero solo che avvenga in modo ordinato».
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