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Fabio Tamburini per âCorrierEconomia - Il Corriere della Sera'
C'è un dato che rende bene l'idea della potenza economica del gruppo: 10 miliardi di euro, la liquidità custodita nelle casse aziendali, a cui va aggiunta quella spesa nell'ultimo anno per l'acquisto di azioni proprie, cioè un altro paio di miliardi. Anche per questo l'Eni può vantare un rating tre punti migliore di quello dello Stato italiano.
Grandi numeri
Di sicuro l'amministratore delegato, Paolo Scaroni, che sta terminando il terzo mandato, è abituato a maneggiare numeri da brivido: oltre 115 miliardi d'investimenti a partire dal 2005, 37 miliardi di cedole azionarie, 34 miliardi di asset venduti. Tanto che l'unica, vera incognita è rappresentata dalle indagini, in corso, a partire dall'inchiesta sui contratti internazionali della controllata Saipem.
A chi gli chiede conto del lavoro svolto, Scaroni risponde con un altro numero, il total shareholders return , cioè l'indice corrispondente all'andamento in Borsa e ai dividendi distribuiti, considerandoli reinvestiti nel titolo alla data di stacco della cedola relativa.
Dal maggio 2005 al gennaio 2014 l'Eni ha segnato un + 51%, contro un + 42% delle compagnie petrolifere europee diversificate in altri business (l'inglese Bp, l'anglo-olandese Shell, la spagnola Repsol). In realtà il dato va analizzato perché i risultati di bilancio derivano da una somma algebrica: l'andamento positivo delle attività petrolifere e performance negative su tutti gli altri fronti.
Lo conferma la scomposizione dell'Ebit, il reddito operativo aziendale. In totale, nel 2013, ha raggiunto i 12,6 miliardi di euro, che derivano da 14,6 miliardi portati in dote dalle attività petrolifere e da 1,9 miliardi di perdite degli altri settori (principalmente il gas, la raffinazione, l'industria chimica). All'inizio del mandato di Scaroni lo scenario era del tutto diverso: 17,4 miliardi di ebit nel 2005, di cui 12,6 miliardi nelle attività petrolifere e 4,8 miliardi dalle altre attività (di cui 3,7 miliardi di parte Snam).
Nuovi giacimenti
Insomma, la grande crisi con relativo crollo dei consumi e la vendita della Snam, imposta dal governo Monti, hanno colpito duro. L'impegno preso con il mercato è di riportare in attivo i settori sofferenti entro il 2016. La terapia prevede la riduzione della capacità produttiva nella raffinazione, investimenti nella chimica verde per fronteggiare il crollo delle produzioni di base, il completamento della revisione dei grandi contratti internazionali di fornitura del gas in modo da tenere conto delle nuove condizioni di mercato (attualmente sono ancora troppo onerosi, compreso quelli con la russa Gazprom).
Al contrario l'andamento dei prezzi del petrolio, che ha raggiunto i 108 dollari al barile, è risultato tonificante sulle attività . E, dal fronte petrolifero, la notizia più positiva di tutte è l'andamento delle scoperte di nuovi giacimenti di oil e gas.
Il gruppo, che aveva perso molte posizioni con forti recriminazioni da parte del partito degli ingegneri, colonna portante della società , è tornato ai fasti del passato conquistando il primato nella classifica delle company multinazionali dal 2008 al 2013 e staccando la concorrenza di molte lunghezze.
I nuovi giacimenti sono risultati pari a 2,5 volte la sua produzione di idrocarburi, Shell e Total sono a quota 0,5 volte, Bp a 0,4, Chevron a 0,3, Conoco Phillips e Exxon Mobil a 0,2. L'Eni, in particolare, ha rafforzato la presenza in Asia e Africa, entrando in nuovi Paesi come Myammar, Iran, Irak, India, Nigeria, Pakistan, Venezuela. Ma il vero fiore all'occhiello è la più grande scoperta nella storia dell'Eni: il giacimento in Mozambico, a cui seguono i pozzi in Kazakhstan, fonte per la verità di gioie ma anche di dolori variamenti assortiti (a partire dalla complessità di trattare con i potentati locali).
Per quanto riguarda la produzione di petrolio, malgrado i successi nella scoperta dei giacimenti, l'obiettivo dei 2 milioni di barili al giorno annunciato da Scaroni non è stato raggiunto, ma era stato calcolato all'inizio del 2012, quando il petrolio oscillava intorno a 85 dollari al barile, mentre poi è salito a 108 dollari, con il risultato che i Paesi produttori hanno tagliato le quote di estraibili dalla multinazionali, senza contare l'effetto dei conflitti e delle tensioni in Libia, Algeria, Nigeria.
Cessioni
Più in generale la redditività dei nuovi giacimenti è minore del passato perché quelli migliori, da cui è più facile estrarre oil e gas, vengono gestiti direttamente dalla company degli Stati sovrani (padroni in casa propria), mentre alle multinazionali restano i campi più difficili da gestire per le condizioni ambientali e le caratteristiche dei pozzi. Nonostante ciò il Mozambico, per esempio, si è rivelato un toccasana per i bilanci del gruppo, che ne hanno tratto vantaggio grazie alla vendita del 20 per cento dei giacimenti per 3,4 miliardi. Proprio la cessione di asset ha permesso d'incassare sotto la gestione Scaroni 34 miliardi, di cui 12,9 miliardi nel 2013.
Le altre voci più significative sono rappresentate dalla Snam (5,6 miliardi, a cui l'Eni avrebbe rinunciato volentieri pur di tenersi il sostanziale monopolio del gas in Italia, che ha sempre garantito profitti elevati perché le tariffe sono regolamentate da autorità pubbliche) e dalla portoghese Galp (1,8 miliardi). Vendita di asset che negli ultimi otto anni ha contribuito alla distribuzione di una montagna di utili agli azionisti: 37 miliardi, di cui oltre 12 miliardi versati nelle casse dello Stato (oltre a 13,6 miliardi di tasse).
Sono ragioni valide perché la proprietà del gruppo, una delle nostre poche multinazionali, resti in Italia, con tutti i vantaggi che ne seguono. Lo confermano, per esempio, le 11 mila assunzioni fatte negli ultimi otto anni nonostante la crisi. E' giustificata, a proposito del controllo dell'Eni, qualche attenzione. La Cdp (Cassa depositi e prestiti) e il ministero dell'Economia controllano attualmente poco più del 30 per cento, rispettivamente il 25,7 per cento e quasi il 4,4 per cento. Ma, nei mesi scorsi, il governo Letta aveva annunciato l'uscita di scena del Tesoro, con l'obiettivo di fare cassa.
Certo il governo può difendere il controllo dell'Eni grazie alla golden share. Tuttavia ridurre il pacchetto di controllo del gruppo - secondo osservatori di mercato - potrebbe risultare una scelta rischiosa perché la presenza nell'azionariato dei fondi è massiccia (quasi il 60 % sono esteri). In occasione dell'ultima assemblea, e per la prima volta, i fondi si sono presentati con una percentuale complessivamente superiore a quella degli azionisti di controllo. La vendita del pacchetto di titoli del Tesoro, tra l'altro, rischia di non neppure troppo conveniente perché il beneficio economico verrebbe in misura significativa annullato dal venir meno del flusso dei dividendi.
Resta il fatto che Scaroni ha sempre liquidato l'alternativa per l'Eni tra essere preda o predatore con un paio di battute, ripetute con una certa frequenza. «A nessuno verrebbe in mente di scalare un'azienda grande come l'Eni contro l'ostilità di un'intero Paese». Mentre per quanto riguarda le acquisizioni spiega che mantenendo un ritmo così elevato di scoperta dei nuovi giacimenti «non se ne sente proprio il bisogno».
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