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Viviana Mazza per il “Corriere della Sera”
«Lo Stato islamico, sappi, è uno Stato perfetto. Qui non facciamo nulla che vada contro i diritti umani». Così Maria Giulia Sergio (alias Fatima), l’italiana unitasi all’Isis, ha detto via skype in un’intervista pubblicata ieri sul Corriere.
Fatima è una delle (almeno) 550 occidentali residenti nel Califfato. Sono «l’apice della macchina di propaganda dell’Isis — ci dice nella sua casa di Londra Mohammad Tasnime Akujee, avvocato che rappresenta le famiglie delle tre quindicenni inglesi Amira Abase, Kadiza Sultana e Shamima Begum fuggite in Siria — Tutto ciò che dicono fa notizia: l’Isis lo sa e le usa. Se sono infelici di certo non lo diranno su Twitter».
La maggioranza delle muhajirat (migranti) occidentali hanno tra i 14 e 20 anni e sono attive sui social media. Postano foto di crepes alla nutella e tramonti, promettono case con elettrodomestici a chi arriva, romanticizzano la «sorellanza» tra jihadiste e persino le nozze forzate.
Dietro la scura facciata di un edificio georgiano a Westminster, presso l’Institute for Strategic Dialogue, le studiose Erin Saltman e Melanie Smith monitorano sui social media il più grande database di donne occidentali nell’Isis: 111 profili. «Mostrando la loro vita quotidiana danno l’idea che sia facile vivere nel Califfato — spiega Saltman — e diventano modelli per altre ragazze. Nei loro account non vedi la guerra; anche se condividono le immagini delle decapitazioni, si autocensurano sui problemi quotidiani».
Alcune donne arabe, scappate, hanno raccontato come si vive davvero. L’Isis proibisce alle donne di uscire di casa senza accompagnatore. Il codice di abbigliamento prevede abiti neri doppi, guanti e un velo triplo per nascondere gli occhi: le violazioni vengono punite con la frusta. Il ruolo delle donne nel Califfato è di essere mogli e madri: sposate a 16-17 anni (ma è possibile anche a 9).
Una vita così estrema che anche alcune donne indottrinate non la sopportano: una giovane, Umm Abaid, ha spiegato in un recente documentario di Channel 4 che pur condividendo i vincoli sull’abbigliamento, ha deciso di scappare quando l’Isis ha cercato di assegnarle un nuovo marito appena è rimasta vedova (una violazione della shiaria che richiede di aspettare 4 mesi).
Ben 300 dei 700 inglesi partiti per la Siria e l’Iraq sono tornati a casa: l’avvocato Akujee rappresenta diversi di loro. Contattato via WhatsApp da una inglese in Siria è riuscito a negoziare per liberarla. «Ma era nelle mani di Nusra. E’ più facile con loro che con Isis».
Per quanto edulcorati, anche i racconti online delle jihadiste a volte rivelano segnali di infelicità. «Abbiamo imparato a leggere tra le righe», spiega Saltman. Ragazze incinte rifiutate in ospedale a Raqqa (segno che la gente locale non ama i foreign fighters), hashtag che lamentano i problemi delle vedove.
E poi ci sono account che improvvisamente tacciono, com’è accaduto con quelli delle austriache Samra Kesinovic e Sabina Selimovic. C’erano voci che volessero tornare a casa. «Ora si teme che siano sotto tortura, in quarantena o morte – continua la studiosa -. Finisci nei guai se metti in dubbio l’Utopia».
Sono una decina le occidentali «pentite» fuggite all’Isis. E’ difficile per loro: non parlano l’arabo, i passaporti vengono distrutti. Nessuna ha parlato al ritorno. «Sono sotto processo a porte chiuse», nota Saltman. «Ma credo sia un errore non far sentire la loro voce: farebbe da contraltare alla propaganda».
donne schiave isis
donne siriane lasciano i territori dell isis e si spogliano dei burqa neri 8
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