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1. ZERO-ZERO-TETTE - LA DONNA-AGENTE CHE HA PERMESSO DI TROVARE BIN LADEN, DICHIARA GUERRA ALLA CIA
Guido Olimpio per il "Corriere della Sera"
Agente-donna della Cia, sui 30 anni, ha sfidato i veterani: «Se vogliamo trovare Osama dobbiamo seguire chi gli porta i messaggi». E così gli americani sono arrivati a Bin Laden. Sei mesi dopo, la Cia le ha conferito la più alta onorificenza. Ma la medaglia è stata assegnata anche ad altri. E lei non ha gradito («Solo io la meritavo»), forte anche del fatto di aver ispirato il personaggio di «Maya» nel film Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow dedicato al blitz contro Osama.
Che sia di carattere e combattiva lo dice la sua storia. Agente-donna della Cia, sui 30 anni, ha sfidato i veterani più scaltri insistendo con la sua teoria del corriere: «Se vogliamo trovare Osama dobbiamo trovare e seguire chi gli porta i messaggi». Lo diceva, lo ripeteva, non le davano retta. Poi alla fine si sono convinti. La Casa Bianca premeva per dei risultati nelle indagini sul capo di Al Qaeda e allora hanno provato. Bingo. Così - secondo la versione ufficiale - sono arrivati a Bin Laden e al suo rifugio a Abbottabad in Pakistan.
Lei ha gustato quella vittoria fino in fondo, riuscendo a vedere il corpo senza vita della «preda». La sua «preda». Poi un pianto liberatorio - raccontano - accucciata sull'aereo che trasportava la salma del terrorista. Ma il caso della 007 ha avuto una coda non proprio elegante. La Cia, mesi dopo, le ha conferito la più alta onorificenza dell'agenzia - la Distinguished Intelligence Medal -, un riconoscimento meritato. Solo che quella medaglia è stata assegnata anche ad altri agenti che hanno partecipato all'operazione. E lei non ha gradito. Con un gesto inusuale ha spedito un'email interna a dozzine di colleghi: «Voi mi avete ostacolato e osteggiato. Solo io meritavo quel premio».
Al settimo piano del comando Cia, dove siedono i vertici dell'agenzia, non l'hanno presa bene. E così - come svela il Washington Post - hanno bloccato la sua promozione, uno scatto che le avrebbe portato in busta paga un aumento annuale di circa 14 mila euro. Uno stop bilanciato dal trasferimento ad una nuova unità anti-terrorismo e da un bonus in denaro. Ma neppure questo ha riportato la pace tra le «ombre».
Agli sgarbi di scrivania - la Cia è spesso simile a qualsiasi altro ufficio del mondo - si è aggiunto del veleno. Intinto nella gelosia. La 007 ha ispirato il personaggio di «Maya» - interpretato da Jessica Chastain - nel film «Zero Dark Thirty» di Kathryn Bigelow in uscita tra pochi giorni e dedicato al blitz contro Osama. La regista ha costruito la storia sull'agente donna e per farlo uno dei suoi collaboratori ha potuto consultarla a lungo.
Colloqui, scambi di idee, una visita al «centro» che ha gestito l'assalto e al poligono che riproduceva la palazzina di Abbottabad. Vuoi vedere, insinua qualcuno, che la vera «Maya» ha parlato troppo. Un'accusa che i repubblicani hanno esteso in questi mesi all'amministrazione Obama: hanno aperto le porte della Cia e svelato segreti alla Bigelow per celebrare il presidente con un film propagandistico.
«Maya» è rimasta in mezzo, anche se era inevitabile. Molti le riconoscono la determinazione e l'intuizione che ha portato le spie sulla pista giusta. Però aggiungono che l'individuazione di Bin Laden è stata il frutto di un lungo lavoro di squadra. Infine non risparmiano critiche al suo carattere, a volte sopra le righe. E la stessa Bigelow ne ha suggerito qualche aspetto. In una scena del film, dopo l'uccisione di altre due donne della Cia in Afghanistan (fatto vero), «Maya» reagisce con queste parole: «Credo di essere stata risparmiata in modo da poter finire la mia missione».
2. UN INCUBO CHIAMATO OSAMA
Giulia D'agnolo Vallan per "Il Manifesto"
Zero Dark Thirty, in gergo militare, è il il cuore della notte. à anche l'ora (le 24.30) in cui i Navy Seals di Team Six, il primo maggio 2011, misero piede nel cortile delle residenza fortificata di Osama Bin Laden, ad Abbottabad. Il film di Kathryn Bigelow che presenta lo stesso titolo, apre su un'oscurità ancora più profonda e vertiginosa. Prima di tutto, su schermo nero, passa una ricreazione audio del panico di voci e rumori dell'undici settembre. Stacco e siamo in un black site (sì, ancora nero) in un luogo non identificato dove la Cia conduce i suoi interrogatori segreti.
E Bigelow, nel caso qualcuno sospettasse che avrebbe aggirato l'ostacolo, fa esplodere immediatamente l'idea stessa del segreto, affidando le prime immagini del suo film proprio a una scena di tortura.
Jack Bauer e Carrie Mathison, in 24 e Homeland, hanno portato lo spettro di quegli interrogatori disumani nel salotto di casa, insieme alla psiche, turbatissima, dei due agenti. La mise en scene classica e precisissima di Bigelow non ci risparmia niente, e non cerca scorciatoie: quello che si vede è una combinazione di metodicità scientifica e macelleria medioevale.
I rituali e gli attrezzi di scena svelati al mondo dalle micidiali foto di Abu Ghraib ci sono tutti - cappio, cappuccio, collare da cane, waterboarding, le umiliazioni sessuali, l'heavy metal a volume assordante... «La jihad continuerà a esistere tra cent'anni», riesce a mormorare tra sangue, sputo e lacrime Ammar (Reda Kateb, l'attore di Un Prophet)
«Ammiro la tua resistenza, fratello. Ma alla fine cedono tutti. à questione di biologia», gli dice l'uomo Cia. Interpretato dal luminoso attore australiano Jason Clarke, non è un sadico o un depravato (la famose «mele marce» di Rumsfeld). Ma uno che sta facendo il suo lavoro.
Nella sua complessa architettura drammatico/visiva (la sceneggiatura dell'ex giornalista Mark Boal è un ibrido tra reportage investigativo e fiction, la mise en scene di Bigelow è limpida, inequivocabile, priva dei virtuosissimi manipolatori di un Greengrass), Zero Dark Thirty è un film che non prevede «zone di conforto» per lo spettatore. Quello che sta succedendo - che sia una bomba su un bus di Londra o in una base militare afghana, o un uomo torturato selvaggiamente in una remota prigione pakistana o polacca - è un problema di tutti.
Il «lavoro» della guerra era anche il tema di The Hurt Locker e tutto il cinema di Bigelow è fatto di appassionate immersioni in microcosmi di cui esplora procedure e codici (che si tratti di bikers, vampiri, surfisti rapinatori o militari che disinnescano bombe). Allo stesso modo Zero Dark Thirty è un film che esiste in un microcosmo preciso, la caccia a Bin Laden vista non attraverso le scelte di Bush o Obama, ma nel quotidiano di chi l'ha fatta.
Bigelow e Boal affidano la loro storia a un'analista fresca di college (Jessica Chastain), catapultata a Islamabad da Langley. Il personaggio esiste realmente. Attraverso di lei, Bigelow suggerisce in modo sottile, ma inequivocabile, la differenza di prospettiva che esiste tra lo sguardo di una donna e quello di un uomo. Che è poi il senso profondo di tutto il suo cinema.
Maya (Chastain) ci mette un po' ad abituarsi alla realtà della «guerra contro il terrore». Ma poi trova il modo di adeguarsi - dopo tutto, come dicono nei corridoi della sede Cia in Pakistan, ha l'istinto di un killer. In un arco di tempo di circa otto anni, concentrato in due ore e quaranta di film, Maya punta tutte le sue energie su quello che molti dei suoi colleghi credono un fantasma: Abu Ahmad-alKuwaiti, un classico «ago nel pagliaio» che si rivelerà il corriere speciale di Bin Laden e l'uomo che porterà gli americani allo scalcinato «fortino» di Abbottabad.
Sorveglianza incessante, interrogatori, bustarelle, piste false, altri interrogatori, altra sorveglianza... il tutto punteggiato da notizie di bombe che esplodono qua e là , colleghi che ci lasciano la pelle, incluso il regalo di una sfavillante Lamborghini gialla a un ricco saudita in cambio del numero di telefono della mamma di Abu-Ahmad...ll suo è un lavoro ossessivo, frustrante e certosino. Condotto quasi esclusivamente lontano da Washington e occasionalmente insubordinandosi al proprio capo, che la vorrebbe impegnata su altro. Nell'arco di quegli anni di caccia ossessiva, la Casa Bianca cambia di mano. Sullo sfondo di una scena, Obama in tv promette la messa fuori legge della tortura.
«L'aria è diversa a Washington. Fai attenzione a non rimanere l'ultima con un collare di cane in mano», le dice un collega prima di rientrare in Usa. Ma in genere Zero Dark Thirty evita accuratamente le maiuscole della politica. Si vedono per un paio di scene Panetta (James Gandolfini), Brenner... Ma il film, e la storia, appartengono a Maya, ai suoi colleghi e ai Seals che completeranno il raid. Al momento della messa in lavorazione, alcuni repubblicani l'avevano denunciata come un'operazione di propaganda favorita dalla Casa Bianca di Obama per opportunistici scopi elettorali. Per evitare problemi, l'uscita del film era stata posticipata a Natale.
Visto adesso, a rielezione avvenuta, Zero Dark Thirty non solo non è un film banalmente «pro Obama»: non è un film su un evento del passato, né descrive un sollievo. Nella sua magnifica, sicura, chiarezza formale e politica è una finestra su un problema aperto - Guantanamo, i black sites, i droni... Ci stanno davanti, portando con sé interrogativi difficili da risolvere. Sono decisamente, ancora, un problema di tutti.
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