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    PRENDERE IL CALCIO CON FILOSOFIA. LA LEZIONE DIMENTICATA DI MANLIO SCOPIGNO – VITA, MORTE E MIRACOLI (CALCISTICI) DELL'ALLENATORE DI CULTO CHE PORTO' IL CAGLIARI ALLO STORICO SCUDETTO DEL ’70 E SI REINVENTO' GIORNALISTA, PER POI MORIRE SOLO – “DIVENTAI FILOSOFO AD HONOREM ANCHE SE ALL’UNIVERSITÀ SU KANT E HEGEL ERO UNA FRANA. MAI RIFIUTATA UN’ETICHETTA, CI MANCHEREBBE ALTRO” – ALLA LETTERA DI LICENZIAMENTO RICEVUTA DAL PRESIDENTE DEL BOLOGNA, REPLICÒ: “CI SONO DUE ERRORI DI SINTASSI E UN CONGIUNTIVO SBAGLIATO” – DISSEMINO' LA CARRIERA DI FRASI MEMORABILI COME “NEL CALCIO LA COSA PIÙ PULITA È IL PALLONE. QUANDO NON PIOVE”


     
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    Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera”

     

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    «Diventai filosofo ad honorem anche se all’università su Kant e Hegel risultavo una frana. Lo scherzo è durato oltre vent’anni. Lasciavo credere...», confidò ironico anni dopo Manlio Scopigno al nostro Franco Melli.

     

    «Mai rifiutata un’etichetta, ci mancherebbe altro. Dicevano, ad esempio, che nelle mie squadre regnava l’indisciplina, che battevo la fiacca, che trascuravo la parte atletica. Così noi smidollati andammo a vincere 4-0 a Torino, nell’ultima fatica della stagione dello scudetto».

     

    Lo smidollato numero uno, ovvio, era lui: figlio di un forestale appenninico nato a Paularo, un paese della Carnia ai confini dell’Austria ma cresciuto a Rieti e deciso fin da ragazzo a coltivare insieme due grandi passioni: il calcio e la cultura. Un’abbinata che a vari maestri del pallone e docenti universitari pareva insensata.

     

    manlio scopigno in nazionale manlio scopigno in nazionale

    Sergio Campana, centravanti del mitico Lanerossi Vicenza, laureato in giurisprudenza e per quarant’anni guida dell’associazione calciatori, ride ancora del conflitto: «Ero seduto su una panchina e studiavo non so quale testo universitario quando l’allenatore si avvicinò, mi squadrò e mi disse dandomi del lei: “Lei sta troppo seduto, i muscoli si irrigidiscono”. Dissi: “Quando andiamo col treno in trasferta come a Napoli, però, gli altri giocano a carte e restano seduti tutto il viaggio...”. “Cosa c’entra? Un conto è giocare a carte, un altro studiare. Non va bene”».

     

    Al «Filosofo», racconta il giornalista e saggista Luca Telese nei due libri pieni d’amore, aneddoti, storie sarde sul Cagliari del leggendario scudetto del 1970 («Cuori rossoblù» e «Cuori campioni») andò tutto al contrario. Lui, che amava i libri, a qualche professore non piaceva proprio. Era un intruso.

     

    Iscritto alla Sapienza di Roma, studente lavoratore dal mestiere un po’ anomalo, il giovane stava reggendo con piglio sciolto l’esame di letteratura italiana con l’assistente quando l’Ordinario, come Manlio si sarebbe sfogato anni dopo raccontando tutti i dettagli all’amico e scrittore Luciano Bianciardi, s’intromise di colpo con una domanda velenosa: «Scopigno, mi scusi: ma lei mi sa dire perché un calciatore, nella vita, dovrebbe avere bisogno una laurea in Lettere?».

     

    luca telese non e' l'arena luca telese non e' l'arena

    Sorpresa. Silenzio. Imbarazzo. Il ragazzo risponde: «No, io non glielo posso dire». Pausa. «È lei, professore, che dovrebbe spiegarmi perché mai un calciatore non dovrebbe ambire a una laurea in Lettere».

     

    Una sfida. Insiste il docente: «Vede, Scopigno, in questa società, che qualcuno vorrebbe sovvertire, tutto funziona bene perché i professori fanno i professori, i panettieri fanno i panettieri e gli uomini che amano correre in mutande per la gioia del pubblico fanno i calciatori».

     

    manlio scopigno e gigi riva manlio scopigno e gigi riva

    Uno schiaffo, scrive Telese: «Poi il cattedratico afferra la Divina Commedia e senza nemmeno aprirla, ma impugnandola a due mani come un’arma, cita dei versi: “Lo maggior corno della fiamma antica / cominciò a crollarsi, mormorando...”. Scopigno li conosce bene: “È il XXVI canto, quello di Ulisse”, dice. “La fiamma della sua anima dannata racconta a Dante della spedizione verso l’ignoto, il suo ultimo viaggio oltre i confini del mondo conosciuto...”» E via così.

     

    Non era tipo, il giovane Manlio che si illudeva allora di diventare un grande terzino prima alla Salernitana e poi al Napoli prima di essere costretto a smettere a causa di un bruttissimo incidente di gioco, da farsi strapazzare in quel modo. E l’avrebbe più volte dimostrato.

     

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    Un esempio? La reazione annoiata alla sgarbata lettera di licenziamento ricevuta dal presidente del Bologna, che l’aveva da poco assunto dopo quattro anni di successi a Vicenza ed era deluso dall’infelice avvio dei rossoblù nel campionato 1965/66: «Se l’ho letta? Sì, purtroppo: ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato».

     

    A farla corta: filosofo o no, in un mondo in cui la cultura non ha mai contato nulla e ancora pochi anni fa ha visto uno come Gigio Donnarumma rinunciare alla maturità per andare in vacanza a Ibiza, lui spiccava come Socrate o Schopenhauer. E ne approfittò, da buon Seminatore d’oro (premio guadagnato nel ‘67 dopo un fantastico campionato col Cagliari e dal Cagliari ricambiato col licenziamento in tronco per una notte brava durante una tournée americana quando, sfatto dall’alcool, osò far la pipì in un vaso di fiori nel giardino della nostra ambasciata a Washington) per seminare decenni di battute memorabili.

     

    manlio scopigno e nereo rocco manlio scopigno e nereo rocco

    Il tutto dopo aver esordito al suo arrivo tra i rossoblù promettendo: «Con il whisky ho chiuso definitivamente. D’ora in poi, solo champagne». Fu forse il primo a rompere certe ipocrisie prima dello scandalo del calcio-scommesse: «Nel calcio la cosa più pulita è il pallone. Quando non piove». Il primo a costruire una squadra spettacolare in grado allo stesso tempo di difendersi (record: undici gol subiti nel 1969/70) come nessuna prima e nessuna dopo: «Non capisco perché il catenaccio a dieci difensori fissi venga considerato vergognoso, mentre la zona a dieci difensori, uno accanto all’altro in successive linee, è arte e modernismo».

     

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    Il primo ad abolire i ritiri ancora oggi usati da tanti suoi colleghi: «Sono invenzioni di allenatori questurini, avidi di lucrare perfino sulla diaria». Il primo a ridere delle elucubrazioni di tanti «maghi» schiavi di schemi e algoritmi: «Ho avuto una intuizione tattica geniale per raggiungere l’obiettivo dello scudetto: fare più reti e prendere meno goal». Il primo a sbuffare contro le comparsate televisive: «Sono un allenatore, non una soubrette: purtroppo mi mancano le belle gambe».

     

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    E ancora fu tra i primi, nella scia di Nereo Rocco (che negli spogliatoi d’una finale di coppa aveva diluito la tensione radunando tutti a partire dal portiere Fabio Cudicini: «Bon, la tatica xè questa: ti, Fabio, ti sta in porta. Tuti i altri fora») a cercare di parlare, parlare sul serio, coi suoi giocatori.

     

    Avete presente i «sergenti di ferro»? Lui era il contrario: «Con Gigi Riva, amico di sempre, compagno di stanza al Cagliari e in nazionale, erano non meno di 40 Marlboro rosse a testa al giorno», racconterà Ricky Albertosi a Giancarlo Dotto. «Le nostre camere parevano fumerie. L’anno dello scudetto, un venerdì sera, antivigilia di Lazio-Cagliari, decisiva, imbastiamo un poker a quattro nell’albergo del ritiro romano. Io e la mia fortuna sfacciata, l’impenetrabile Riva, Angelo Domenghini e Sergio Gori, che bastava guardarlo in faccia per capire cosa aveva in mano.

     

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    Intorno al tavolo, il resto della squadra a tifare. Assatanati. Litri di birra e decine di sigarette. Alle due e mezzo ci viene fame. Ordiniamo panini. Bussano alla porta, mi trovo davanti Manlio Scopigno, che avanza nella stanza facendosi largo in una nuvola di fumo. Rimaniamo tutti col fiato sospeso. Lui ci guarda e fa: “Do fastidio se fumo?”». «In mezz’ora eravamo tutti a dormire, ricorderà a Telese il mitico Gianluigi Cera, «E il giorno dopo vincemmo 3 a 0».

     

    Osannato prima per il miracolo del Vicenza, poi per essere stato il primo a vincere uno scudetto con una provinciale e senza acquisti miliardari, diceva: «Io non recito. Il calcio è un castello le cui fondamenta sono edificate sulle bugie. Io dico pane al pane e brocco al brocco, e passo per un tipo bizzarro».

     

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    Costretto da problemi di salute e difficoltà crescenti nel reggere lo stress a lasciare prima la Roma e di nuovo il Vicenza che aveva creduto nella sua ripresa, mollò il calcio che non aveva ancora cinquant’anni.

     

    Dipinto tutta la vita con l’eterna sigaretta in bocca, cercò di restare nel giro come giornalista sportivo e s’inventò sul Giorno la rubrica «Senza filtro», dove cesellava cronache, ritratti e commenti, come scriverà Giulio Giusti nel libro Un filosofo in panchina, «mai banali o scontati, sempre propositivi e arguti».

     

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    Se ne andò, ormai dimenticato, nel settembre ‘93. Nella sua patria adottiva, Rieti.

     

    In una delle ultime interviste, tempo prima, aveva malinconicamente raccontato a Melli: «Non fumo più. I polmoni riposano dal 1976. Mi sono sentito male a Vicenza. Poi la guarigione, la lista delle proibizioni, l’attesa accanto al telefono. Qualche dirigente chiamerà... Invece niente...».

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