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    QUALCUNO FERMI LA MURGIA NEL LIBRO “GOD SAVE THE QUEER” SCIVOLA SU UN ORRIPILANTE LINGUAGGIO “CORRETTO”, TRASFORMANDO L'ITALIANO IN UNA SUCCESSIONE DI MOSTRUOSE ELISIONI. NON SOLO: IN PREDA A UNA SINDROME ACUTA DA SCHWAESE, APPLICA LE SUE REGOLE “SENZA GENERE” PROPINANDO AL LETTORE PERSINO FEMMINIST* E ATTIVIS*. PECCATO CHE I DUE SOSTANTIVI TERMININO IN -ISTA, E PRESENTINO AL SINGOLARE, UN'UNICA FORMA PER IL MASCHILE E IL FEMMINILE…


     
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    Massimo Arcangeli per “il Giornale”

     

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    L'incipit di un'opera è quasi sempre il luogo di massima concentrazione di una promessa ai lettori, fatta ancor prima di cominciare a scrivere; un collo di bottiglia, che si spera non ostacoli più di tanto il passaggio del magma penetrato di responsabilità che ogni promessa da mantenere porta giocoforza con sé; un microcosmo nel cosmo che squadernerà pagina dopo pagina le sue strutture profonde agli occhi di chi, fra quei lettori, abbia dimostrato la capacità di cogliere le anticipazioni dell'autore e di accettarne (e rilanciarne) la sfida. Una premessa indispensabile per l'ultimo saggio di Michela Murgia, appena uscito per Einaudi: God Save the Queer. Catechismo femminista (pagg. 152, euro 14,50).

     

    Primo capitolo (Cattolica e femminista), rigo sesto e seguenti: «Come si può essere femminist* e persino attivist* quando si ha fede nel Dio in nome del quale si inginocchia un sistema religioso così patriarcale e inflessibile al cambiamento culturale?» (p. 3). Sei tentato di leggere femminist* e attivist* come alternative queer a femministi/femministe e attivisti/attiviste.

     

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    Ti rifiuti di pensare a una stecca proprio in apertura di libro, per giunta alla prima occorrenza di un simbolo che l'autrice, oltranzista genderqueer, non vedeva senz' altro l'ora di tornare a sfoggiare dopo i numerosi precedenti, a cominciare dai due apripista del 2021: un articolo per L'Espresso (Perché non basta essere Giorgia Meloni, 7 giugno), e un romanzo scritto con Chiara Tagliaferri (Morgana. L'uomo ricco sono io) e pubblicato tre mesi dopo da Mondadori.

    Avresti dovuto invece pensarci a quella stecca, perché femminist* e attivis*, nella stonata ouverture di Michela Murgia, sono le alternative genderless (senzagenere) di femminista e attivista.

     

    Peccato che i due sostantivi terminino in -ista, e presentino perciò al singolare, condividendo le sorti di altri nomi di genere comune in italiano (pediatra, omicida, eremita, collega, insegnante, ecc.), un'unica forma per il maschile e il femminile. Dobbiamo dunque inferirne che nella testa di Murgia gironzolino da qualche parte un femministo e un attivisto. L'autrice stessa, inconsapevole del rischio di maneggiare uno scivoloso schwaese (che vide a suo tempo soccombere perfino una commissione concorsuale d'improvvidi professori universitari) senza né masticarlo né tantomeno madroneggiarlo, mette le mani avanti: «La lingua di questo libro cerca di corrispondere alla massima pluralità che le è possibile nel momento del suo sviluppo» (p. 7).

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    E il massimo sforzo inclusivo possibile non poteva rinunciare a contemplare, nell'evoluzionismo bislacco del modello linguistico soggiacente alla queerness, la presenza di un secondo simbolo schwammatico, simile a un 3 di norma è più piccolo, ma in casa Einaudi hanno puntato al risparmio , per la rappresentazione del plurale: «ciascun* per sé e Dio per tutt3» (p. 4); «È possibile essere credenti, femminist3 e queer allo stesso tempo?» (ibid.); «bisogna stare attent3 a dare i nomi alle cose» (p. 10); ecc.

     

    Un sistema linguistico, ben lontano perfino dalla fase dell'allattamento, che parrebbe allo stadio intrauterino di un bottone embrionale se non fosse proseguo, mi perdonerà la scrittrice, sulla via damascata dallo sviluppo per gli aborti linguistici sparsi lungo il testo e allegramente intervallati a parti naturali (occasioni mancate) e cesarei (soluzioni forzate).

     

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    A un attributo in schwaese riferito proprio a queer, preceduto da una preposizione articolata adoperata al maschile (la «categoria umbratile del queer, che è inclassificabile, mobile, ontologicamente incert*, sfuggente e quindi pericolosamente fuori controllo», p. 12), può così rispondere, qualche pagina dopo, una sarabanda di 3 applicati a nomi, aggettivi, pronomi e preposizioni fuorché in un caso: «se quella cristiana non fosse una fede di cui si può rendere ragione, cosa la distinguerebbe dal complotto di QAnon, dai rettilian3 e da3 terrapiattist3, che sarebbero capac3 di negare la sfericità terrestre persino se Cristoforetti in persona l3 portasse tutt3 in orbita a constatarla?» (p. 19);

     

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    per i terrapiattisti l'inclusione è perfetta («da3 terrapiattist3»), i poveri rettiliani sono accolti dal determinato (rettilian3) ma discriminati dal determinante (dai). Alla pagina seguente, una manciata di righe dopo: «La speranza senza la fede non definisce i credenti, ma gli ottimisti» (p. 20). Niente da fare per gli articoli, rigorosamente al maschile (i, gli), e nessuna concessione per il secondo plurale: donne ottimiste non ce ne sono, figuriamoci gli enbies.

     

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    Il clou? Si parla della pop star inglese Harry Styles, che già nel 2017 si era espresso molto chiaramente su quanto ritenesse sorpassate domande sull'orientamento sessuale di qualcuno: «Non stava dicendo che tra il maschio e la femmina, o il gay e l'etero, egli potesse decidere di essere un po' l'uno e un po' l'altro a seconda dell'umore al risveglio» (p. 9). Egli, nientemeno.

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