Estratto dell'articolo di Stefano Boldrini per “il Messaggero”
(...) Arrigo Sacchi, siamo fuori dal mondiale per la seconda volta di fila.
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«Ce lo siamo meritato. Il nostro primo pensiero è per i rigori sbagliati contro la Svizzera, ma la verità è che il primo posto della nazionale elvetica non è frutto del caso. Nel periodo in cui fui il coordinatore delle nazionali giovanili, andai in Svizzera per vedere come lavorano nelle loro accademie. Scoprii club super attrezzati, con strutture all'avanguardia. L'ascesa di un movimento non è mai figlio dell'improvvisazione. Bisogna investire e lavorare. In Italia si pensa ad altro: ad esempio si consente di allenare solo a chi abbia giocato in serie A o B. Con questo criterio, io, Zaccheroni, Sarri e Zeman non avremmo mai lavorato ad alto livello».
In Germania c'è una nuova ondata di coach che vengono dalla base e sono giovanissimi. Nagelsmann all'età di 34 anni si è ritrovato alla guida del Bayern.
«In Italia non si dà fiducia ai giovani calciatori, figurarsi gli allenatori. Si torna alla casella di partenza: problema culturale».
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De Ligt appena sbarcato al Bayern ha parlato del suo disagio nel passaggio dalla Juventus, denunciando la carenza di preparazione fisica e d'intensità. La chiave di lettura in Italia è stata quella della dichiarazione polemica e non si è considerato invece il problema di fondo.
«In Italia si bada alla tattica. Il nostro calcio è sommerso dal tatticismo. Siamo prigionieri di questo schema. Ma come affermò il generale e filosofo cinese Sun Tzu, quando un tattico incontra uno stratega, il tattico perde».
Il Napoli di Luciano Spalletti esprime un calcio diverso rispetto all'andazzo generale: quattro gol al Liverpool, tre ai Rangers in Scozia, il successo in casa del Milan.
«Spalletti ha sempre avuto una vocazione diversa, ma ora è sulla strada giusta. Milan-Napoli è stata una delle poche partite divertenti del nostro campionato».
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Altra frase di Mancini: In Italia prevale il 3-5-2, forse dovrò adeguarmi. Possiamo dire che la retroguardia a tre in realtà è un'ipocrisia, perché nella fase difensiva si passa a cinque?
«E' un altro esempio di furbizia, in questo caso sul piano comunicativo. Sul piano pratico regaliamo sempre due-tre giocatori agli avversari. Abbiamo la cultura del catenaccio e del contropiede nel nostro DNA. In questo modo, dopo aver cambiato alleato come spesso è accaduto nella nostra storia, abbiamo vinto la Prima guerra mondiale. Una volta il gallese Mark Hughes mi disse: Se il campo di calcio fosse grande due chilometri, gli italiani occuperebbero sempre gli ultimi venti metri. Siamo questi».
Perché lei negli anni Ottanta parlò di bellezza nel calcio?
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«Mio padre possedeva due calzaturifici e la nostra casa era frequentata da imprenditori stranieri. Si guardava al mondo. Questo mi ha portato a vedere le cose in modo diverso. Quando arrivai al Milan, c'erano trentamila abbonati. La stagione successiva erano settantamila. Il pubblico ama la bellezza. E' il nostro calcio che non è capace di produrla. Del resto, se lo slogan del club più importante d'Italia è vincere non è importante, è l'unica cosa che conta, come si fa a immaginare uno scenario diverso?».
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