Giovanni Terzi per “Libero quotidiano”
SERGIO DE CAPRIO - CAPITANO ULTIMO
«Quando arrestai Totò Riina lui tremava ed aveva paura dimostrando di non avere dignità di fronte alla sconfitta. Il suo era un comportamento da vigliacco ma il mio compito, in quel preciso momento, era soltanto quello di portare a termine un'operazione importante concentrandomi sul dispositivo che dovevo attuare e mettendo in sicurezza i miei uomini ed il prossimo».
Sergio De Caprio, detto "Capitano Ultimo", così racconta di quella memorabile data del 15 gennaio del 1993 che portò all'arresto di Totò Riina in quella che era stata chiamata, in codice, "operazione belva". Capitano Ultimo era a capo della sezione Crimor dei Ros che da settembre del 1992, dopo le stragi che videro morire i giudici Falcone e Borsellino, si impegnò a catturare il "capo dei capi", il boss di Corleone Toto' Riina.
lorenzo crespi e il capitano ultimo sergio de caprio
«Da indagini compiute si riescì a comprendere come esistesse una pista comune che si snodava attorno al nome di Raffaele Ganci, capo della "famiglia" mafiosa del quartiere "Noce" di Palermo, ritenuto il tramite sicuro per arrivare al Riina che era latitante da venticinque anni».
In che cosa consistevano le vostre indagini?
«In riprese video e servizi di pedinamento sui componenti della famiglia Ganci. Ed è stato così che i primi giorni di ottobre del 1992, Domenico Ganci, figlio di Raffaele, fu da noi seguito per le vie del quartiere Uditore, dove riuscì a far perdere le sue tracce lungo la via Bernini.
Contemporaneamente il Nucleo Operativo Carabinieri di Palermo 2, avviò indagini su Baldassarre Di Maggio, al tempo incensurato, e ritenuto in possesso di importanti informazioni sull'organizzazione di "Cosa Nostra" in quanto ex uomo di fiducia di Riina che, a seguito di dissidi su attività economiche gestite dall'organizzazione, si era dovuto allontanare dalla Sicilia temendo per la sua stessa vita».
SERGIO DE CAPRIO ULTIMO - RITA DALLA CHIESA
L'operazione che portò alla cattura di Totò Riina quanto tempo durò?
«Circa sei mesi in cui eravamo incollati a comprendere ogni spostamento della famiglia Ganci che ritenevamo, a ragione, essere in collegamento con Riina. In uno di Sergio De Caprio è un militare italiano, colui che ha arrestato Totò Riina e condotto importanti indagini sulla malavita organizzata; a causa delle sue indagini antimafia è stato nel mirino di "Cosa Nostra".
Ecco come alcuni collaboratori di giustizia raccontano i progetti di uccisione di Capitano Ultimo; il pentito Gioachino La Barbera riferiva in udienza pubblica che il killer Leoluca Bagarella aveva offerto ad un carabiniere che forniva notizie a "Cosa Nostra" un miliardo di lire per avere informazioni su dove alloggiava il capitano «Ultimo».
TOTO RIINA
Il pentito Salvatore Cangemi riferiva di avere parquesti pedinamenti ci accorgemmo che Domenico Ganci era scomparso una volta entrato nello stabile di via Bernini 54 dove da indagini successive ci accorgemmo che esistevano utenze Enel intestate alla famiglia Riina». E le indagini su Baldassarre di Maggio?
«Andarono avanti finché l'8 gennaio del 1993 non venne arrestato e divenne collaboratore di giustizia. In quel momento avevamo due opzioni, la prima di intervenire e perquisire immediatamente un manufatto ubicato all'interno del cosiddetto "fondo gelsomino", invia Uditore, dove Di Maggio dichiarò di aver incontrato Riina e Raffaele Ganci anni addietro, ma con questa ipotesi io non ero d'accordo perché rischiavamo di rendere evidente l'operazione e, qualora fosse stato un errore, di farla saltare.
La seconda, quella proposta da me, fu di tenere sotto controllo gli esponenti della famiglia Sansone - ritenuti particolarmente vicini a Riina - ed in particolare il complesso delle villette ubicate proprio in via Bernini 54, zona che avevamo individuato attraverso una intensa attività d'indagine e mai menzionata da Di Maggio nel corso dei colloqui sostenuti con gli investigatori.
sergio de caprio ULTIMO
Così io feci immediatamente visionare a Di Maggio le immagini girate in quell'ultimo giorno in cui, il collaboratore di giustizia, riconobbe i figli e la moglie di Riina mentre escono dal complesso di via Bernini 54. Questa scoperta suggerì di proseguire l'osservazione la mattina seguente, ma con Di Maggio a bordo del furgone utilizzato per sorvegliare la zona e con una serie di squadre pronte ad operare i pedinamenti dei soggetti eventualmente individuati».
Finché arrivò il famoso 15 gennaio 1993...
«Esattamente. La mattina del 15 gennaio 1993 alle ore 08.55, Di Maggio riconobbe Salvatore Riina mentre usciva in macchina proprio da via Bernini 54, accompagnato dall'autista poi identificato in Salvatore Biondino.
toto riina con carlo alberto dalla chiesa
Immediatamente avviammo il pedinamento finché pochi minuti dopo bloccammo l'auto in via Regione Siciliana, all'altezza del Motel Agip, arrestando il boss di Cosa nostra»
È di giovedì 23 settembre la sentenza di assoluzione del generale Mori, che era a comando dei Ros durante l'arresto di Riina, in merito alla trattativa Stato-Mafia. Quale è il suo giudizio su questo caso giudiziario?
«Le sentenze vanno rispettate ma certamente è un caso importante perché mi auguro possa fermare questa deriva eversiva finalizzata a minitecipato nel giugno 1993 a una riunione con Bernardo Provenzano, Ganci Raffaele e Leoluca Bagarella nel corso della quale Provenzano gli comunicava l'esistenza di un progetto per catturare il capitano Ultimo con l'obiettivo di tenerlo ostaggio e successivamente ucciderlo. Su di lui sono stati fatte pubblicazioni, film, fiction e docufilm come quella di Ambrogio Crespi "Capitano Ultimo, le ali del falco».
Sergio De Caprio
Oggi ha fondato una comunità che sostiene i bisognosi, trovando così un altro, nobile modo di servire lo Stato. mizzare il ruolo di Cosa nostra e nel delegittimare l'arma dei carabinieri. Ho chiamato il Generale Mori e con lui mi sono congratulato per il modo nobile con cui ha affrontato vent' anni di accuse. Un uomo d'onore buttato in pasto a degli sciacalli che l'hanno persino deriso. In questa vicenda c'è tutto il cortocircuito giudiziario-mediatico che distrugge le vite umane».
È un caso, quello del generale Mori, di mala giustizia. Lei crede sia giusto ragionare su una riforma della Giustizia dove il magistrato che sbaglia deve pagare?
MARIO MORI
«Io nella vita ho sempre pensato che chi sbaglia debba pagare. È un principio sa nodi vita in comunità; le modalità devono essere poi ponderate dal legislatore; certo è che se il ruolo del magistrato è vissuto come un servizio alla società diviene un fattore positivo se, al contrario, è vissuto come una posizione di potere allora prende una piega diversa e distorta che non fa certamente del bene.
Troppo spesso esistono lobby trasversali che cercano di delegittimare uomini d'onore per cercare di avere qualche momento di popolarità».
Vuole fare qualche no me?
«No, perché non vorrei dimenticare nessuno di quelli che hanno partecipato a questo banchetto di delegittimazione dell'arma dei Carabinieri e l'elenco sarebbe troppo lungo».
giovanni falcone fotografato da mimmo chianura
Uno dei suoi primi servizi importanti fu l'indagine della "Duomo Connection" a Milano. Che ricordo ha di quei fatti risalenti alla fine degli anni Ottanta e inizi anni Novanta?
«Fu una esperienza entusiasmante condotta assieme alla dottoressa Ilda Bocassini e al giudice Giovanni Falcone in cui mettemmo apunto tutte le tecniche di indagine che sarebbero servite qualche anno dopo. "Seguire i soldi" diceva Falcone e così scoprimmo che i denari venivano addirittura seppelliti sotto terra!
L'indagine della Duomo Connection portò alla luce un intrigo tra politica, edilizia e spaccio di stupefacenti molto importante».
carlo alberto dalla chiesa
Lei ha incontrato il generale Dalla Chiesa quando ed era molto giovane. Cosa le ha insegnato un uomo così importante?
«Dalla Chiesa ebbi la fortuna di conoscerlo in accademia insieme ai miei colleghi e fui invitato a pranzo con lui. Ricordo che disse una frase straordinaria: "Vogliate bene ai vostri comandi di stazione". Quella frase fu preziosa e mi insegnò l'umiltà nei confronti di tutti. Noi il generale Dalla Chiesa cerchiamo di onorarlo con i nostri comportamenti tutti i giorni e non di celebrarlo».
Cosa le ha insegnato l'arma dei carabinieri?
«Tutto, sono figlio di un militare, l'arma è stata la mia vita. Mi ha insegnato a mangiare da bambino, a scrivere, a leggere. I carabinieri, soprattutto quelli di basso grado, mi hanno insegnato a diventare uomo facendomi capire la bellezza di dividere in parti uguali con il prossimo».
Per questo ha fondato la casa famiglia "Volontari Capitano Ultimo" di Roma, dove porta avanti progetti di solidarietà nei confronti dei meno fortunati?
CARABINIERI
«Dividere e condividere è qualcosa che sento profondamente dentro. È un insegnamento che ti permette di vivere meglio, abbiamo mille progetti tra cui una televisione dei mendicanti. Sin da piccolo mio padre mi insegnava a servire gli altri e non di sfruttarli e devo dire che, oggi che non c'è più, mi manca tantissimo».
Lei ha mai avuto paura?
«Sì, e credo comunque che la paura sia una buona consigliera, perché ti permette di riflettere e di portare al massimo la tua concentrazione quando agisci. Ed è dalle tue azioni che dipendono le vite di altre persone».