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DAGOREPORT - BENVENUTI AL GRANDE RITORNO DELLA SINISTRA DI TAFAZZI! NON CI VOLEVA L’ACUME DI…
Malcom Pagani per “www.gqitalia.it”
Crescione, Amerigo, Dodo e Bomber lo aspettano ancora al Bar Ughi, periferia est di Livorno, dove smessa la divisa sociale, Max Allegri può indossare quella che preferisce: «Costume e ciabatte, come nelle lunghe estati che da ragazzo iniziavano a marzo e duravano fino a settembre».
L’uomo che non c’era, l’acciuga che ha “fatto” il pallone come nelle canzoni di De André, l’ex calciatore che per farsi ascoltare ha dovuto smentire i proverbi locali («A Coteto e Sarviano ’un sanno notà e alla Valle manco ascendere in città») ed emigrare a Cagliari, Milano e Torino, torna sempre alla stazione di partenza.
«Appena posso vado a casa per sentirmi di nuovo Massimiliano, giocare a briscola con gli amici, correre nel gabbione dei Bagni Fiume fino a farmi venire le vesciche. Davanti c’è il mare e io, finalmente, mi sento libero». Accadrà anche a fine campionato, con o senza un nuovo scudetto conquistato alla guida della Juve.
Da bambino, la parola “vittoria” aveva un senso?
Da bambino pensavo solo a stare in cortile, dalle due all’otto, a inseguire un pallone sotto casa. Ogni tanto dalle finestre gettavano un panino. Si mangiava e poi si ripartiva. Sudati, stravolti, con le ginocchia rosse, fermati solo dal buio.
Famiglia?
Mio padre Augusto, portuale e comunista, si sbatteva. Mia madre Carla era infermiera. A un certo punto, convinta da papà, lasciò il lavoro. Ma i soldi servivano, così si mise a pulire per due lire gli appartamenti di quelli che con i vaini, con il denaro, non avevano problemi.
I vaini sono stati importanti?
Romeo Anconetani, il mio presidente di una breve stagione pisana, artista della battuta,
diceva: «Quando si muore i soldi non servono, bastano le carte di credito».
Quartiere Coteto, il suo luogo natale, fotografie sparse.
Ci conoscevamo tutti. Ho avuto un’infanzia felice. Mangiare abbiamo sempre mangiato.
I miei genitori si sforzavano, ma senza farci pesare la retorica del sacrificio. Al porto, tra un turno per scaricare le casse e una sveglia all’alba, mio padre guadagnava meglio di altri operai.
Quando non doveva spaccarsi la schiena trasportando le casse gli veniva un sorriso tra le rughe: «Domani c’è il turno meccanizzato, de’, si fa festa, compriamo le paste».
Iniziò a giocare a calcio presto?
La maglia della mia prima squadra, quella dei portuali, la indossai a 9 anni. Giocavamo con il sole, con la pioggia, persino con la neve. Certe volte, tornando a casa, pareva che nella borsa avessi il piombo.
Quando iniziò a pensare che con il calcio avrebbe potuto vivere?
Tardi, per non dire tardissimo. All’inizio volevo solo giocare e divertirmi.
Glielo lasciarono fare?
Non sempre, e quando non accadeva, discutevo, litigavo, mi battevo.
Per che cosa litigava?
Per difendere la libertà di godere inseguendo un pallone. La prima squadra che mi offrì un contratto, il Cuoiopelli, pagò il mio cartellino 6 milioni di lire. Avevo 17 anni. Ero felice. Eccitato. Mi trasferii a Santa Croce sull’Arno e con mia grande sorpresa scoprii che in campo andavano gli altri.
E reagì?
Ero tra i giovani con più talento e di stare in tribuna non avevo nessuna voglia. Andai dal presidente, Mario Brotini, e glielo spiegai: «Torno a casa», «Come torni a casa?», «In
prima squadra non mi fanno giocare, che resto a fare? Di prendere soldi per star fermo non me ne frega nulla».
E se ne andò davvero?
Per due lunghe settimane. Brotini mi telefonava tutti i giorni: «Dai Max, torna, non è successo niente». Fu paterno. Mi convinse.
Era casinista a quei tempi?
Ero ragazzo e c’era l’irruenza dei vent’anni. Si vive di sensazioni, di istanti in cui l’impeto è più importante del raziocinio. Della categoria in cui militavo non mi è mai importato nulla. Di giocare sì. Oggi vedo svernare i ragazzi in tribuna per anni e non li capisco. Se sei bravo, puoi scendere di categoria, tanto risali comunque. Se appassisci guardando giocare gli altri, non ti ritrovi più. Perdi il gusto.
Secondo Paolo Virzì, regista di Ovosodo, Livorno è la città in cui basta un congiuntivo in più «e sei bollato come finocchio».
La città non si è aperta al mondo di fuori. A Livorno c’è la battuta feroce e i problemi
vengono dopo. In primavera il disgraziato e il miliardario si sdraiano sugli scogli del Romito, mangiano pesce, dimenticano il presente. Tutti in bici o in motorino a inseguire il sole. La cosabella della mia città è la sua inconsapevolezza: chi ha un euro in tasca affronta la giornata con la stessa serenità di un principe.
Come erano le sue estati?
Un asciugamano, uno scoglio, un pezzo di torta di ceci. Sotto il sole, senza creme solari. A spellarsi, a dormire, a farsi male facendosi bene.
E oggi come sono?
L’anno scorso ho organizzato in città un campo estivo per i bambini. Centocinquanta ragazzini al giorno. Urla, pallonate, fotografie, partitelle, genitori attaccati alle reti di recinzione. A fine giornata, dalla stanchezza, non mi riconoscevo. Ed ero contento. Gli occhi di quei bambini li conoscevo. Erano i miei.
Nel gabbione dei Bagni Fiume, Armando Picchi portava a giocare Suarez e Corso.
Si rilassavano, dimenticavano la grande Inter e tornavano persone normali.
Le piace la normalità?
Mi piace il cazzeggio. Mi dà grande gioia. Rasserena, rimette in pace con il mondo. Lo consiglio ai miei giocatori. Non si può essere concentrati per 24 ore al giorno. È un indizio di malattia.
Amico, carceriere, educatore. Che tecnico è Massimiliano Allegri?
Amico no, carceriere mai. Non recludo i calciatori, li responsabilizzo. Le soluzioni devono trovarle da soli. Altrimenti quando saranno senza aiuto non sapranno a che santo votarsi.
Lei i consigli li ascoltava?
Li ascoltavo, ri-ettevo e poi facevo di testa mia. Sono per l’autonomia e per il confronto.
Se sei sicuro di te stesso, che problemi hai a confrontarti? Detesto gli yes-men e cambio
idea perché non la considero una debolezza, ma un modo di crescere. So di non avere
sempre ragione. Se ce l’avessi e dicessi solo cose giuste, sa che palle?
Lei è stato alle dipendenze di molti presidenti.
Cellino, Berlusconi, Squinzi, Agnelli, Gaucci, Piero Camilli, con la sua follia, a Grosseto. Tutti importanti.
antonio conte e massimiliano allegri
Dopo tre anni, uno scudetto e qualche polemica, Berlusconi la licenziò.
Me lo comunicò Galliani, poi il giorno dopo mi telefonò Berlusconi. Hanno romanzato tanto, inventando dissidi e complotti, ma la verità è che con il Berlusca ho sempre avuto un ottimo rapporto. È simpatico. Anzi, molto simpatico. Poi se mancano i risultati ci si può dividere, ma il rispetto reciproco non è mai mancato.
Si diceva che, prima di assumerla, le avesse chiesto se fosse comunista.
Assolutamente no. E a me della politica non importa quasi niente. Ora poi non c’è più nulla, gli ideali sono andati a farsi fottere da un bel pezzo e gli statisti sono nelle pagine dei libri.
Per invertire il flusso ci vorrebbe anche fortuna. Lei è scaramantico?
No, io credo nella positività e nella negatività delle persone. Però con gli scaramantici ho avuto a che fare. Il numero preferito di Cellino, il mio presidente al Cagliari, era il 23. E il calciatore per cui stravedeva, un argentino di nome Larrivey.
Che con il gol non aveva troppa confidenza.
Non segnava quasi mai. Per disperazione, Cellino decise di aiutarlo e fargli indossare di imperio il 23. Me lo comunicò tutto contento: «Me lo ha chiesto lui spontaneamente, sai Max?». Sapevo che era una bugia, ma finsi di crederci perché per gli scaramantici è importante essere assecondati. «È un’ottima notizia», risposi, «speriamo che domenica ci aiuti a vincere».
Domenica.
Si gioca Cagliari-Genoa. Vinciamo per 3-2. Larrivey segna con la sua 23 e fa gol anche
Matri, che indossava la numero 32. Cellino era in estasi. Aggiunse il numero del terzo marcatore, Conti, che portava il 5 e giocò i numeri al Lotto.
Vinse?
Non ci crederà: vinse. Un’altra volta, vide che i nostri asciugamani blu a forza di lavaggi erano stinti nel viola e ordinò al magazziniere di trasferirli nello spogliatoio avversario.
Cellino resistette alla tentazione di esonerarla nonostante 5 sconfitte consecutive.
Il calcio è una folata di vento, un rimbalzo sporco, un pallone che entra o esce per dieci
centimetri. Mi gioco tutto in una partita con il Milan. Giochiamo alla grande e a un soffio
dalla fine Ambrosini sfiora il palo. Se avesse fatto gol avremmo perso e io non sarei qui.
Avrei ricominciato dalla serie B o addirittura dalla terza serie. Cellino comunque era un presidente geniale. Gli davano del matto, ma quelli che sono considerati matti, matti non sono quasi mai.
Dopo Napoli-Juventus dell’andata qualcuno prese per matto anche lei.
“Quando tutti pensano di farmi il funerale poi si ricredono, adesso inizio a divertirmi io”, dissi.
Un girone dopo, le prospettive si sono ribaltate.
Ma non porto mai rancore, è una fatica inutile. Il calcio è una chiacchiera da bar. Fanno tutti i professori, parlano di tattiche e schemi, ma la verità è che nel pallone non si inventa nulla dal ’92, dall’abolizione del passaggio indietro al portiere. Il resto sono puttanate.
E lei puttanate ne ha mai fatte?
Nella vita ho fatto tante cazzate e sulla mia carriera di allenatore nessuno avrebbe scommesso un mezzo caffè. «Allegri è un coglione», dicevano. «Gioca al Casinò, punta sui cavalli, ha lasciato la sposa sull’altare, è solo una testa matta».
Diventare chi sono è stato sfidare un pregiudizio. Dimostrare che le origini hanno un senso: vengo da Livorno, sono di scoglio e lo scoglio, come si sa, è duro.
E con le cazzate di ieri che rapporto ha?
Sono contento di averle fatte. Le ho pagate tanto. E mi hanno insegnato molto.
Ieri la irridevano. Oggi la invidiano.
A Livorno si dice: «Meglio invidiati che compatiti». Mi pare renda l’idea.
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