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Giulia Zonca per “la Stampa”
Usare una bambina come ponte tra Est e Ovest sembra davvero azzardato se non fosse che la bambina in questione sa tirare le gambe fino al limite della rottura, sa inarcare la schiena come nessun altro, sa spingere le estremità oltre i confini dell’umano.
La bambina si chiama Nadia Comaneci e il libro di Lola Lafon La piccola comunista che non sorrideva mai(Bompiani, pp 320, € 18) non racconta la sua storia ma quella del suo corpo: un fisico simbolo della forza del comunismo e poi esempio del benessere capitalista. Usato da entrambi i mondi e adorato da ambo le culture.
Non è una biografia perché la verità avrebbe preteso squarci di orrore e ricordi fantastici. Non avrebbe funzionato. Lafon è una francese nata a Bucarest e cresciuta a Sofia, un ponte pure lei. Cercava uno specchio, un megafono, una protagonista che potesse reggere il peso di una trasformazione brutale e Nadia, un nome scandito, ritmato, impugnato sia dal regime che dalla pubblicità è il soggetto ideale perché il suo corpo era una fortezza e a un certo punto si è messo a scricchiolare.
Come il muro di Berlino, come la distinzione tra buoni è cattivi. Nadia entra in scena definita dalle etichette: «un robot di 40 chili», «la piccola manipolatrice», «leggera e insieme implacabile», «una pianta carnivora da ingozzare di difficoltà». È programmata per stupire e il capitolo più bello resta quello che racconta l’eccezionale.
Le Olimpiadi di Montreal 1976: l’esercizio pericoloso e struggente, tanto bello da far male, che prende subito il nome Comaneci. Quell’oro con voto pieno e incredibile, il 10 che nemmeno il tabellone riesce a scrivere perché non esiste e il decimale non si sposta. Lei ha 14 anni e un body bianco che vivrà in proprio: «ammaliate dal body le adolescenti occidentali si mettono sotto i piedi persino la Guerra Fredda».
In una settimana di gare diventa il centro del mondo e non si tratta delle vittorie, piuttosto della combinazione tra potenza ed eleganza. Prima di essere una donna, persino prima di essere un’atleta. Nadia, in quell’estate di gloria a Montreal, non ha un età, non ha un sesso: è semplicemente magica ed è proprio il prototipo a cui un’intera generazione può aspirare.
Nel 1977 c’è un triumvirato di bimbe al potere. Jodie Foster, baby prostituta di Taxi Driver, tanto brava e precoce da restare incarnazione dell’innocenza pure nella parte di una sgualdrina. Brooke Shields, altra vergine da bordello scelta da Louis Malle per sussurrare perdizione con lo sguardo angelico. E Nadia Comaneci, «la bimba missile» che sa pubblicizzare i dogmi dell’Est in Occidente.
È il suo allenatore Bela Károlyi che l’ha creata: Valorizzava il nostro coraggio non certo le nostre acconciature» e bisogna stare attenti al quaderno dei giudizi, «sensibile era una diagnosi definitiva». Per tutto il libro Bela, senza cognome come fosse un orco o un fumetto, sbraita, ordina, pretende. Dietro le quinte di ogni gesto e di ogni parola. Il padre perfetto per i giovani comunisti, solo che la storia ci mette poco a capovolgersi e Bela scapperà per diventare il tecnico della nazionale americana, per inventare ginnaste robot in nome del marchio sulla tuta invece che in quello di Ceausescu.
No, Lafon non è interessata a ripetere quanto il dittatore fosse meschino e spietato, anche se lui e i suoi assurdi discorsi di propaganda sono trattati come meritano. L’autrice è concentrata su quel corpo in evoluzione che cambia insieme con la politica. In tutti e due i casi non si tratta di una rivoluzione improvvisa, è una trasformazione lenta e dolorosa. Nadia a un certo punto la chiama «malattia» e fatica a contenere la morbosità: quanti chili, quanti centimetri, porta il reggiseno, ha avuto il primo ciclo? Lei, ridisegnata dal mastino Bela, decide di fermare il tempo. Ha già sfidato la gravità e l’ha schiacciata grazie ad acrobazie indescrivibili, quindi può anche smettere di crescere. Almeno per un po’.
Non mangia più, va a correre tre volte al giorno e si sottopone a carichi di lavoro da massacro. Arriva alla seconda Olimpiade di nuovo perfetta e devono mettere insieme una giuria corrotta per lasciare qualche successo anche alla Russia padrona di casa. Nadia sa che l’apoteosi finisce lì, sul tappeto di Mosca.
Non può più bloccare gli anni come Ceausescu non può impedire al futuro di entrare in Romania. Nel 1989 lei scappa negli Usa, lui viene giustiziato. Un regime caduto non ha bisogno di un ex bambina come ambasciatrice. Non si saprà mai se Nadia sia scappata dalla dittatura o da un mondo in cui non aveva più posto.
In America resta scettica, «sono in un Paese libero e non sono libera», però ritrova il ruolo per cui era addestrata e dopo essere stata la ninfa che spacciava comunismo diventa la musa che ne descrive le atrocità. Un ponte di enigmi: anche quando lo attraversi non sai se sei davvero dall’altra parte.
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