DAGOREPORT - NON TUTTO IL TRUMP VIENE PER NUOCERE: L’APPROCCIO MUSCOLARE DEL TYCOON IN POLITICA…
Natalia Aspesi per “la Repubblica”
RIDOTTI ormai alla nausea, al digiuno e all’odio anche per l’adorato, da bambini, uovo al burro, causa l’orribile telebombardamento di piccini cuochi, cuochi pazzi, contadini cuochi, cuochi pasticcioni, comici cuochi, cuochi astrofisici, poeti cuochi, cuochi assassini, gare di cuochi, detti tutti chef, si riuscirà ad amare ancora un’opera d’arte di aspetto mangereccio, tipo “Profiterole” di Oldenburg o “L’igloo del pane” di Merz?
Ci pensi l’Expo milanese a nutrire il pianeta, e con il suo centinaio di ristoranti, se funzioneranno, i milioni di visitatori attesi: ma intanto, sempre a Milano, la gloriosa Triennale sta già nutrendo l’occhio, lo spirito e la mente (ma anche lo stomaco, con il nuovo ristorante) con due grandi mostre di massima ricerca, interesse e divertimento, per noi, per le orde di stranieri che si spera verranno e per i loro e nostri bimbetti, che hanno i loro percorsi particolari e i loro cartoni animati, tra una cucina a legna tedesca del 1906 e un set di forconi e coltelli di tribù cannibali della Nuova Zelanda.
Le noiosissime polemiche che hanno preceduto le mostre (troppo costose, 7 milioni di euro) qualsiasi cosa ne pensino i critici pensosi, gli invidiosi non interpellati e i professionisti del mugugno, sono state sconfitte.
“Cucine & ultracorpi” e “Arts & Foods” sono esposizioni opulente come a Milano non se ne vedevano da anni, tra le tante un po’ accattone: e sono due mostre racconto, fiaba, fantasy, storia, costume, politica, oltre che arte e cibo, e invadono il Design Museum diretto da Silvana Annicchiarico, a cura di Germano Celant e con l’allestimento di Italo Rota.
Centinaia i collaboratori, due gli anni di ricerca, più di un migliaio i pezzi esposti, indispensabili i due cataloghi, finalmente a forma e peso umani, ricchissimi di saggi comprensibili e immagini anche mai viste dai non specialisti. “Cucina & Ultracorpi”: si entra in una cupa grotta dove pare aspettare per farci fuggire dalla mostra stessa e dalla Milano dell’Expo, un’astronave sferica, ottima per E. T. l’Extraterrestre, all’interno di plastica arancione, aperta e con passerella per accedervi, che si rivela essere “Satellite Kitchen”, costruita da Luigi Colani nel 1969, uno dei massimi momenti creativi italiani: opera d’arte e prototipo di una astronave cucina o cucina per viaggi spaziali.
Attorno una serie di frigoriferi d’acciaio, giganti minacciosi schierati come gli eserciti del regno di ghiaccio del Trono di spade e pronti alla carneficina. E infatti la cucina contemporanea ci viene raccontata, con le sue meraviglie, come il luogo domestico da sempre più pericoloso, sempre più invaso da nuovi elettrodomestici come alieni, avatar, androidi, robot, sconosciuti e forse mortali. O forse inutili, dimenticati.
Il Censis ha rilevato che ogni anno in Italia si verificano più di 4 milioni di incidenti domestici con 8000 decessi, i principali assassini essendo proprio gli elettrodomestici quando non si sa usarli perfettamente: e allora tagliano, frullano, scottano, bruciano, danno la scossa elettrica, impastano, spremono, segano o pestano a seconda della loro funzione progettata per il cibo ma piombata sugli umani (e usata anche a scopo delittuoso).
YINKA SHONIBARE E SULLO SFONDO DUE OPERE DI KOONS
Siamo in tanti innamorati delle immense e affollate cucine di Downton Abbey o di Gosford Park, mondi separati dal resto della casa e mai visitati dalle padrone. Quando poi la servitù è scomparsa o si è ridimensionata a una gentile collaboratrice domestica a ore, spesso pagata in nero, è nata la casalinga, detta anche la regina della casa, la signora ormai costretta a entrare in un antro un tempo a lei ignoto e a cercare di renderlo meno tetro e faticoso, con l’intervento ingegnoso e rapace dell’industria, visto che doveva starci lei. Nel 1967 un’azienda italiana di cucine all’americana non si era accorta che le donne stavano cambiando e la sua pubblicità diceva: «Il destino della donna è un destino domestico » mentre nel ‘71 un manifesto femminista del gruppo “Rivolta Femminile” scriveva: «La lotta inizia nello spazio domestico, luogo di oppressione».
Quando si arriva si è accolti da un concerto che ricorda John Cage, posate pestate, apertura di barattoli, friggitura, caffettiera sul fuoco, e i Pink Floyd con il gocciolio di un rubinetto; per proseguire tra folle di elettrodomestici sempre più affascinanti per l’intrusione della genialità di architetti e designer, impegnati a rendere irresistibili una centrifuga o un tegamino, e opere di artisti che ispirandosi al compostaggio, o alla cappa aspirante, fanno arte, come Gabriele Fiocco che nel 2013 costruisce con vecchio legno “Lannofattafranca (nuovo prototipo che rende sognolanti gli scarti”, o Gaetano Pesce, che costruisce il Pescecappa, ricoperto da frutta di plastica colorata.
Le patate dipinte da Segantini (1886) e Van Gogh (1888), le mele di Renoir (1905), le pere di Cézanne (1885), l’allegro chef ritratto da Claude Monet (1882) e il solenne pasticcere fotografato da August Sander (1928): poi la foto di Filippo Tommaso Marinetti in cucina, elegantissimo, mentre minaccia con un dito la cameriera con crestina che maneggia pentole ammaccate e c’è un quadro futurista alle loro spalle, 1935. L’intreccio talvolta sublime talvolta disgustoso tra cibo e arte, si rivela leggiadro e potente nel lungo percorso di “Arts & Foods”, dove si incontrano persino una serie di Ultime Cene, da Warhol, 1986, a Serrano, 1990, da Muniz, fatta di cioccolata, 1997, a Vanessa Beecroft, 2003, composta da sole donne. Ma anche celebri pezzi come il GFT Fish di Frank O Gehry, 1985, un gigantesco pesce squamoso arredato come una casa, ospitato dal Museo di Rivoli, e il celebre bar di Lalanne appartenuto a Yves Saint Laurent e ora trionfante in una casa-museo romana.
Gira da subito la testa in questa mostra dove la domesticità sfiora l’incanto, non tanto per il cibo-arte (tipo un enorme hamburger spiaccicato come un quadro alla parete, opera di Tom Friedman, 2013), ma per la quantità di meravigliosi servizi di piatti, bicchieri, tazze, vassoi, posate, vasi, e tutto ciò che rende fantastica una tavola: gli argenti di Giò Ponti e Lino Sabattini, i piatti del costruttivista russo Mikhailovich Suetin, 1923, i servizi da tè del futurista italiano Giacomo Balla, 1929, e della cubista inglese Clarice Cliff, 1930, le posate dell’austriaco Joseph Hoffmann, 1904, del gruppo Wiener Werkstätte: difficile anzi impossibile impossessarsene per la propria tavola destinata alla dieta e ai servizi supermarket.
Agricoltura, industria, design, commercio, letteratura, pubblicità, gioco, opulenza e miseria, salute e malattia, carestie e guerre, convivialità e isolamento, hanno reso il cibo un mito e una meta, e ispirato artisti ghiottoni e artisti anoressici, artisti testimoni del loro tempo e artisti del futuro. Politica, classismo, razzismo, religioni, gender, letteratura e cinema, sopravvivenza e genocidio spaziano nella mostra. E cibo e arte si rinnovano e si ripetono, come per esempio l’attuale e osannata arte-cibo dello chef sperimentale spagnolo Ferran Adrià, poco più che cinquantenne: il suo libro sulla gastronomia molecolare è stato pubblicato nel 2009, nel centenario del Manifesto Futurista in cui Marinetti suggeriva per la cucina: «Ozonizzatori che diano il profumo dell’ozono a liquidi e vivande, lampade per l’emissione di raggi ultravioletti,… elettrolizzatori per scomporre i succhi estratti, in modo di ottenere da un prodotto noto un nuovo prodotto con nuove proprietà».
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