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“A VESTIRMI SONO UN DISASTRO. QUANDO ARRIVAI A MILANO QUELLI DI ARMANI MI DISSERO: ‘SE GIORGIO TI VEDE COSÌ, CI LICENZIA TUTTI’” – DAN PETERSON MEMORIES: “IO UN UOMO DELLA CIA IN CILE? UNA LEGGENDA NATA DA UNA COINCIDENZA. ARRIVAI A BOLOGNA DAL CILE IL 3 SETTEMBRE 1973. OTTO GIORNI DOPO, CI FU IL COLPO DI STATO CONTRO SALVADOR ALLENDE. E A BOLOGNA, CITTÀ ROSSA, SI SCATENARONO CON LA FANTASIA” – “BERLUSCONI MI CHIESE DI ALLENARE IL MILAN. RIFIUTAI E PRESERO SACCHI. ARRIGO MI DICE SEMPRE: ‘DEVO RINGRAZIARTI’” – LA ZIA CHE LAVORAVA DA CENTRALISTA A LOS ALAMOS, DOVE FABBRICARONO LA BOMBA ATOMICA, GLI SCUDETTI VINTI A BOLOGNA E A MILANO, IL RITIRO A 51 ANNI E IL RITORNO ALL'OLIMPIA NEL 2011… - VIDEO
Estratto dell’articolo di Filippo Maria Battaglia per “la Stampa”
Vive in Italia da cinquantadue anni, ma ancora oggi, se gli si fa una domanda, la prima cosa che risponde è «well». La voce di Dan Peterson è un brand: la sua inscalfibile inflessione del Midwest è finita in pubblicità, telecronache, cartoni animati. […] Con quella voce, alla soglia dei novant'anni, Peterson non smette di raccontare lo sport: stavolta, però, ha scelto le pagine di un libro per tracciare insieme a Umberto Zapelloni una Storia del basket in 50 ritratti pubblicata da Gallucci-Centauria.
Peterson, da piccolo giocava a pallacanestro?
«Mai stato uno spilungone: me la cavavo meglio a baseball. Iniziai nella Ymca, la gioventù cristiana, della mia città, Evanston, in Illinois. Il mio primo coach, Jack Burmaster - un ex cestista con tre stagioni nella Nba - mi tagliò fuori dalla squadra ma mi chiese: "Hai mai pensato di allenare?".
Rimasi scioccato, poi risposi: "Non sono un campione come lei". E lui: "E allora? Guarda che non serve per diventare grandi allenatori"».
A casa come la presero?
«Così così. Papà, un tenente poliziotto, mi voleva avvocato; mamma, una modista che si occupava anche della contabilità di un grande ristorante, mi immaginava artista».
[…] Aveva sei anni quando gli Stati Uniti entrarono in guerra dopo l'attacco di Pearl Harbor.
«E quasi dieci quando sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Fu allora che scoprimmo cosa faceva mia zia Trudy».
Cosa c'entrava sua zia con l'atomica?
«Si era arruolata nel Women's army corps, un ramo dell'esercito composto da sole donne. Fu assegnata a Los Alamos come centralinista, sparì per mesi. Quando venne a trovarci, mia madre le chiese: "Cos'è che fai là?". Calò il gelo, poi le rispose: "Tu cosa pensi?". E la mamma: "Credo che tu stia lavorando a un'arma terribile". La zia la guardò e scoppiò a piangere. Dopo Hiroshima, intuimmo tutto».
[…] In molti credono che sia stato per anni un agente della Cia.
«Una leggenda nata da una coincidenza. Arrivai a Bologna dal Cile il 3 settembre 1973. Otto giorni dopo, ci fu il colpo di Stato contro Salvador Allende. E a Bologna, città rossa, si scatenarono con la fantasia».
Ma come riuscì un americano come lei ad allenare nel Cile di quegli anni?
«Dovevano ospitare i Giochi panamericani del '75 e volevano prepararsi bene. Ma servì comunque l'ok di Allende in persona per il mio arrivo».
Che accoglienza ebbe?
«Un muro di diffidenza: il primo incontro con un giornalista comunista sembrò un interrogatorio, non un'intervista».
Le cose non andarono meglio al suo arrivo alla Virtus Bologna. I quotidiani titolarono «Dan chi?».
«C'erano molto scetticismo e poche aspettative, ma questo fu un grande vantaggio».
Vinse una Coppa Italia e uno scudetto, poi scelse l'Olimpia Milano.
«Quando arrivai, trovai terra bruciata: otto nazionali venduti nelle estati precedenti, sei juniores su dieci in prima squadra. Nessun gigante, ma avevamo un playmaker come Mike D'Antoni: presto diventammo la "Banda Bassotti"».
d antoni dan peterson bob mcadoo
In cinque anni arrivarono quattro scudetti, due Coppe Italia, una Coppa Campioni e una Korac. Il segreto?
«La semplicità: ho sempre cercato di non complicare la vita ai giocatori. Il primo anno, solo uno schema: sempre lo stesso. E poi un lavoro massacrante sulla condizione fisica: più fiato, più gambe, meno infortuni».
A cinquantuno anni, nell'87, si ritirò. Perché?
«Eravamo in cima al mondo, ma a fine stagione, tra gli impegni dentro e fuori dal campo, arrivai stanco ed esaurito. Con il senno di poi, se avessi fatto un mese di vacanza avrei continuato, ma allora non lo sapevo e non volevo tenere in ostaggio la mia società».
Fu in quell'anno che Berlusconi le chiese di allenare il Milan?
«Era gennaio, stavo conducendo su Canale 5 gli Oscar dello sport con Pelé a sinistra e Maradona a destra. Adriano Galliani si avvicinò e mi disse: "Il presidente ti vuole vedere". Risposi: "Ora no, voglio finire bene la stagione. Aspettate maggio e ne parliamo"».
Non aspettarono: arrivò Arrigo Sacchi.
«Ogni volta che vedo Adriano, gli dico scherzando: "Avete sbagliato tutto!". E lui, molto sportivamente: "Pure con te avremmo fatto gli stessi risultati"».
E Sacchi?
«Anche lui ride di gusto. "Devo ringraziarti sempre", dice».
In panchina è tornato nel gennaio 2011. Di nuovo all'Olimpia.
«Dovevo chiudere il cerchio, ripagare la società che amavo e il suo proprietario, Giorgio Armani: l'italiano più famoso al mondo che per il nostro basket ha fatto tanto».
Lo conobbe allora?
«Sì, ma non subito: alla prima partita non c'era. Anche mia moglie Laura era fuori città e io, che a vestirmi sono un disastro, andavo in giro che sembravo un gringo. Appena incontrai quelli di Armani, mi dissero: "Se Giorgio ti vede così, ci licenzia tutti". La mattina dopo mi trovai addosso sei persone a prendermi le misure. Giusto in tempo per incontrarlo al match successivo».
Fece la sua figura?
«Mica tanto. Quando Armani mi strinse la mano, me la trattenne. Fissò il polsino della mia camicia: fuoriusciva un po' troppo dalla giacca. Non servì dire nulla: un'occhiata ai suoi e il giorno dopo mi riportarono in sartoria».[…]
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