DAGOREPORT - TONY EFFE VIA DAL CONCERTO DI CAPODANNO A ROMA PER I TESTI “VIOLENTI E MISOGINI”? MA…
Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera"
La valanga si è portata via Jacopo ma non il suo sorriso.
«Era bellissimo e speciale. Un mese fa la morte di mio fratello sembrava sospesa, irreale,
deborah compagnoni e il fratello
adesso invece l'incredulità si è fatta concreta e dolorosa. Lo sento di più, oggi, il lutto». Deborah Compagnoni è tornata a casa, Santa Caterina Valfurva. L'albergo di famiglia è in mano a Yuri, il maggiore, papà Giorgio trova conforto nelle nipotine, è mamma Adele ad aver bisogno più di tutti del calore di questa figlia campionessa e globetrotter, nata per sciare, tre ori in tre edizioni consecutive dei Giochi (più tutto il resto), cuore grande e ginocchia di cristallo.
«Darsi spiegazioni, come si fa? - si chiede Deborah, accomodata tra il legno di un salotto affacciato sulla sua valle -. Io credo nel destino. Quando deve accadere, accade. Mi piace pensare così perché mi aiuta a vivere meglio. Provo a essere forte, a tenere su i miei. Jacopo aveva un'energia stupenda, conosceva la montagna a menadito, non si può dire che abbia commesso alcun errore. È andata così. Certo, per chi resta, è straziante».
Santa Caterina, dove tutto è cominciato su un paio di scietti azzurri senza marca («Avrò avuto 2-3 anni, papà che è maestro ha notato subito che su quelle due piccole assi ci sapevo stare, andavo dietro a Yuri però non era scontato arrivare in Coppa del mondo: il talento non basta, ci vogliono disciplina e tenacia, bisogna imparare a sbagliare»), è il luogo dell'anima.
Qui Deborah ha vinto, perso, si è innamorata, ha riso e pianto.
«Don Giovanni, il parroco, suonava le campane per i miei successi. I trofei sono esposti in hotel, le medaglie le ho io a Treviso, i pettorali di una carriera sono in uno scatolone chissà dove, mai più aperto né con i miei figli né con i nipoti. Non mi è mai piaciuto vantarmi».
Trionfare con umiltà, in effetti, è sempre stata una delle sue specialità, assieme a una scorrevolezza straordinaria. «La prima medaglia, al Mondiale junior '86, l'ho vinta in discesa libera. All'epoca non ci stavo troppo a pensare: mi piaceva tutto, avevo voglia di sciare, mi iscrivevo a ogni gara e in squadra non si stava tanto a sottilizzare. Oggi si specializzano subito. Nel 1988 mi sono rotta il ginocchio sinistro e da lì in poi sono stata costretta a scegliere. La disciplina in cui mi trovavo più a mio agio è il gigante: è il raggio di curva che normalmente fai anche nello sci libero, lo stile più naturale».
Senza infortuni quanto avrebbe vinto di più?
«Come nel caso di Jacopo, la storia non si può cambiare. Quante cose si potevano fare diversamente? Mi piace cogliere gli aspetti positivi degli stop forzati: impari a conoscerti di più, a trattarti meglio, a coltivare la pazienza. È un lavoro di testa. Io durante gli infortuni ho sempre fatto tante cose, anche dipinto».
Le ginocchia, a 51 anni, si fanno ancora sentire?
«Considero il sinistro, quello che mi ruppi all'Olimpiade di Albertville '92 il giorno dopo aver vinto l'oro in superG, il mio ginocchio sano. Con il destro, invece, che fu operato male inserendo un legamento artificiale, ci convivo da quando avevo 18 anni. Nei fuori pista un po' bruttini devo stare attenta».
Il grido in diretta mondiale di Albertville risuona ancora nelle orecchie di un'intera generazione di italiani, Deborah.
«Ho capito subito che non era un infortunio banale. C'è l'urlo di Tardelli per il gol al Mondiale che ha dato gioia agli italiani e poi c'è il mio...».
Ci avviciniamo all'Olimpiade di Pechino con una squadra femminile fortissima. Segue ancora lo sci? Continua a piacerle?
«In ventidue anni, da quando ho smesso, oltre agli attrezzi è cambiato tutto. Con i social le notizie fanno il giro del mondo in un secondo, gli atleti sono personaggi».
Sofia Goggia, Federica Brignone (che l'ha superata nel numero di vittorie in Coppa del mondo), Marta Bassino: si rivede nella valanga azzurra?
«Di Sofia mi piace l'istinto, il fatto che non faccia calcoli: scende di pancia, anch' io ero un po' fatta così. Federica è l'unica polivalente e ha una bella caratteristica che condividiamo: riesce sempre a riprendersi senza farsi abbattere, questione di carattere. Marta ha alti e bassi però in gigante la sua tecnica è sopraffina: bellissima da vedere. Mi piacciono perché hanno una loro umanità, non sono solo macchine da guerra».
Lei e Tomba siete stati i simboli di un'Italia che negli Anni 90 si dava appuntamento davanti alla tv per fare il tifo. Perché secondo lei siete ancora così presenti nella memoria collettiva?
«I social non esistevano, i telefonini neppure, c'era un unico canale, in chiaro, che trasmetteva le gare. La notizia nasceva nel momento in cui io e Alberto tagliavamo il traguardo e noi eravamo disposti a raccontarci lì, in tv, con i piedi ancora nella neve, dentro gli scarponi, non era possibile cercarci su Google. Tifavano per noi anche i non sciatori, io e Alberto ci mettevamo i risultati e la costanza: eravamo diventati una certezza, una garanzia, quasi due amici fedeli per gli appassionati».
Mezza Italia sperava che vi fidanzaste...
«Oh no, eravamo troppo diversi! Per come la concepisco io, cioè come un valore importante, quella con Alberto non è mai stata un'amicizia stretta, certo ci capivamo perché condividevamo le stesse esperienze ed emozioni. Oggi ci sentiamo per gli auguri di compleanno, un saluto a Natale, cose così».
Nella storia del costume è rimasta la celebre affissione pubblicitaria di un reggiseno, che grazie a lei vendette 10 mila pezzi in una settimana. Castigata per il senso del pudore odierno ma pur sempre la mossa che non ti aspettavi dalla fatina delle nevi, Deborah Compagnoni.
«E pensi che Giulia, la mia storica manager, non dovette nemmeno insistere troppo per convincermi! In una vita scandita dai ritmi dell'atleta, concedermi quell'escursione era stato come ossigenarmi i polmoni.
Mi sono buttata, divertendomi. A quei tempi una famosissima top model, Eva Herzigova, era testimonial di un reggiseno concorrente. Un giorno, in un'intervista, si lamentò di certe sportive bruttarelle che le facevano concorrenza. Le risposi con un sorriso dalla copertina dell'Espresso: non te la prendere, Eva, anzi se vieni su in montagna ti insegno a sciare...».
L'emozione più intensa di tutte?
«Gli ori sono tutti belli uguali: rappresentano il raggiungimento di un obiettivo per il quale hai sacrificato tanto della tua vita privata. Il primo oro olimpico, ad Albertville, non feci nemmeno in tempo a festeggiarlo: il giorno dopo mi portavano via in barella con il ginocchio a pezzi.
Io in Savoia non ci volevo nemmeno andare: non mi sentivo pronta, alla vigilia della partenza con la Nazionale mi sono nascosta a casa della nonna. È venuto mio fratello a stanarmi! A Lillehammer, due anni dopo, e a Nagano nel '98, invece, ci tenevo ad esserci: in Giappone ero più adulta, matura, consapevole. Dopo aver vinto l'argento in slalom corsi il gigante rilassata, come chi non ha proprio nulla da perdere. Oro. Forse la medaglia che mi sono goduta di più. È stata anche la mia ultima vittoria in carriera».
Cosa aspetta a scrivere un libro?
«Tutti scrivono libri, o fanno finta. Nel febbraio '98 mi divertii a sceneggiare una storia di Topolino, "La torta nevosa". Ma perché scrivere un libro, poi? Per raccontare per l'ennesima volta le cose che tutti sanno?».
Forse varrebbe la pena di aspettare Milano-Cortina 2026, l'Olimpiade italiana di cui è ambasciatrice.
deborah compagnoni e alessandro benetton
«Partiamo da un concetto di base: lo sport è centrale nella società e ha un impatto positivo sulla salute, l'occupazione e la coesione sociale. Per la Fondazione Milano-Cortina seguirò vari progetti: quello a cui tengo di più è la sostenibilità dei Giochi italiani. Il 93% delle sedi di gara sono esistenti o verranno realizzate con strutture non permanenti e modulari che permetteranno di essere riutilizzate in futuro e messe a disposizione delle esigenze della comunità. Progettazione, costruzione e funzionamento di tutti gli impianti dovranno apportare valore alle comunità prima, durante e dopo l'evento.
alessandro benetton e deborah compagnoni 6
Dimostrare che i Giochi olimpici possono essere in prima linea nella sostenibilità e fare in modo che resti un lascito positivo è essenziale per mantenerne l'attrattiva a lungo termine. Con tutto il rispetto per Pechino 2022, Milano-Cortina riporterà l'evento al centro dell'Europa e delle Alpi: saranno davvero le Olimpiadi di tutti e dell'inclusione». Sostenibilità significa anche pesare meno sui costi pubblici.
«L'idea di partenza è che i Giochi pagheranno i Giochi. La Fondazione Milano-Cortina 2026 si finanzierà attraverso i contributi del Comitato olimpico internazionale e con un'attività di ricerca sponsor e vendita di diritti di marketing e commerciali. Non peserà sulle tasche della gente, insomma».
Nel programma dei Giochi 2026 entrerà per la prima volta lo sci alpinismo, grande amore di suo fratello Jacopo.
«Non ha bisogno di impianti di risalita: è lo sport più ecologico che esista. Qui in Valtellina c'è una tradizione radicatissima. Quando ho una mattina libera, piuttosto che fare sci libero, prendo le pelli e vado con gli sci d'alpinismo dove non arriva nessuno, dove la neve è intonsa e incontaminata. E allora mi sento libera, e un po' più vicina a Jacopo».
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I suoi figli hanno ereditato la sua passione per lo sport e lo sci?
«Agnese e Tobias sono grandi, studiano negli Stati Uniti, dove lo sport fa parte del programma delle università. Luce ha 15 anni, me la godo ancora, è molto dedicata allo studio».
E nell'amore, Deborah, crede ancora?
«Ne vedo poco in giro, nel mondo, e me ne dispiaccio. Però sì, certo, ci credo ancora ciecamente. L'amore in ogni sua forma: è la forza che mi tiene in piedi e mi fa andare avanti».
goggia brignone fanchinialessandro benetton e deborah compagnoni 2
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