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Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera”
In quella stanza d’albergo che fu la sua tomba, solo e tormentato Marco Pantani esagerò con gli antidepressivi. Troppe pasticche e troppo potenti. Al punto da essere considerate la causa principale della morte del campione di Cesenatico: 14 febbraio 2004, residence Le Rose, Rimini. «Viene ridimensionata la questione cocaina anche se rimane come concausa», conclude l’Istituto di Medicina legale di Verona che nei giorni scorsi ha consegnato l’atto conclusivo delle analisi tossicologiche al procuratore del capoluogo romagnolo Paolo Giovagnoli, titolare del nuovo fascicolo sulla fine del Pirata.
Lo scorso anno Giovagnoli aveva riaperto il caso sulla base della ponderosa denuncia presentata dalla madre del ciclista, la signora Tonina, che ipotizzava uno scenario da brividi avvalorato dalla consulenza del direttore della sezione di medicina legale dell’Università di Ferrara Francesco Maria Avato. Qualcuno si sarebbe cioè introdotto nel residence dove Pantani soggiornava e l’avrebbe costretto a bere una dose letale di cocaina diluita. Omicidio, dunque.
Basato su una certezza: la cocaina come causa di morte, peraltro certificata dal medico legale dell’epoca, Giuseppe Fortuni. Ora quella certezza viene temperata dalla consulenza firmata dal professor Franco Tagliaro, direttore dell’Istituto di medicina legale scaligero, al quale il procuratore si è rivolto qualche mese fa con alcuni quesiti, che andavano a integrare le precedenti considerazioni già sottoscritte dall’esperto: la causa di morte di Marco Pantani può essere ricondotta a un’overdose di cocaina? È plausibile un’aggressione da parte di terzi? Il professore si è messo al lavoro, cercando le tracce lasciate dalla precedente indagine.
Dopo un avvio sottotono e sconsolante, per il fatto che non si trovavano i reperti biologici, la svolta: dal laboratorio universitario che aveva eseguito le prime analisi sono spuntati i campioni di sangue e urine del Pirata. «Inizialmente mi avevano risposto che il materiale non era più disponibile, in quanto distrutto». Qualche insistenza e un po’ di fortuna hanno consentito l’insperato recupero.
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E da lì l’analisi scientifica che mancava all’appello dell’indagine: una cromatografia liquida, cioè l’esame che individua le componenti della miscela letale, e una spettometria di massa, che serve a individuare eventuali sostanze sconosciute e il loro peso. La conclusione è nelle trenta pagine inviate a Giovagnoli: in quei giorni di forte depressione Pantani ha assunto psicofarmaci in maniera smodata. Due prodotti in particolare, Venlafaxina e Trimipramina. Farmaci ma anche cocaina, seppure, in proporzione, in dosi meno consistenti rispetto a quanto era emerso finora. «L’azione combinata può giustificare pienamente la morte».
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Rimane una domanda: suicidio o errore di valutazione? E qui la risposta non è assoluta, come già aveva anticipato Tagliaro nelle considerazioni preliminari: «L’assunzione eccessiva può essere determinata dal desiderio di risolvere il problema della depressione, sbagliando le dosi, oppure con finalità autosoppressive (gli antidepressivi in questione sono tra i farmaci più comuni impiegati a scopo suicidiario)». In ogni caso, è escluso il delitto, come invocato con forza da mamma Tonina e dal suo avvocato, Antonio De Rensis. «Non sono emersi elementi tali da ipotizzare concretamente un’assunzione sotto costrizione dei farmaci e dello stupefacente».
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Cosa succederà, dunque, dell’inchiesta per omicidio? «Alla luce di questi risultati mi accingo ad archiviare il caso», ha anticipato il procuratore Giovagnoli che aveva riaperto il fascicolo per dovere nei confronti della denuncia di mamma Tonina sulla morte di quel suo figlio campione. Mito dello sport e disperato nella vita.
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