DAGOREPORT - BLACKSTONE, KKR, BLACKROCK E ALTRI FONDI D’INVESTIMENTO TEMONO CHE IL SECONDO MANDATO…
Maria Letizia Tega per Pagina 99
È la vendetta della Brillo Box, rapita da Andy Warhol e resa pezzo da museo, del manifesto Ritz maltrattato da Mimmo Rotella, delle bottiglie Coca Cola alate di Robert Rauschenberg.
L’iconografia della pubblicità, da sempre saccheggiata a vario titolo nella storia dell’arte, vive la sua rivincita. Oggi i ruoli si sono invertiti: è il mondo dell’advertising a utilizzare per i suoi fini commerciali le opere d’arte, e non più il contrario.Negli ultimi anni numerosi brand hanno tratto ispirazione dai grandi maestri della storia dell’arte attraverso citazioni, fotomontaggi, e vere e proprie riproduzioni di opere, modificate ad hoc per promuovere i loro prodotti.
Non si contano le aziende che, sfruttando la popolarità di un quadro, ne hanno modificato qualche tratto adattandolo ai loro slogan, a partire da Lavazza che reclamava il diritto alla pausa caffè con Pellizza da Volpedo, fino al David testimonial per le armi. L’esempio più recente infatti risale a pochi mesi fa e arriva dalla ditta produttrice di armi americana ArmaLite, che ha usato la scultura di Michelangelo per reclamizzare un fucile -definito un’opera d’arte- provocando l’ira e l’indignazione del ministro Franceschini.
Il colosso Ikea però, è andato oltre e nella sua ultima campagna pubblicitaria, per ora uscita soltanto nel Regno Unito, ha riproposto le scene di tre noti quadri: “Nottambuli” di Edward Hopper, “I mangiatori di patate” di Vincent Van Gogh e “La colazione dei canottieri” di Pierre-Auguste Renoir.
I protagonisti sono fotografati intenti a bere e mangiare esattamente come avviene nelle tele originali, sullo sfondo però, solo mobili e stoviglie prodotte dal marchio svedese.I dipinti, rivisitati in questo modo, hanno acquisito modernità creando empatia con lo spettatore, attualizzati grazie a qualche cambiamento, conservano tuttavia la luce, l’atmosfera originaria e i tratti distintivi che ne caratterizzano la personalità, permettendo così di riconoscere la citazione a chiunque osservi le immagini.
Così il Renoir svedese racconta un brunch domenicale tra amici, mentre le patate di Van Gogh, tramutate in caffè, descrivono una merenda, forse una pausa tra colleghi, e l’immobilismo di Hopper diventa un pigro ritrovo notturno di avventori di un locale hipster.Il fenomeno Ikea permette di apparecchiare in tutto il mondo in maniera identica, con le stesse stoviglie, da un continente all’altro senza differenze, ma l’essenza della cena o del pranzo vivono del rituale del pasto, a prescindere dalla sua cornice.
Non a caso i tre quadri scelti sono tributi alla condivisione e alle relazioni che il rito del pasto porta con sé, e al ruolo che riveste in una comunità.
Per trovare altri tentativi di unione tra arte e pubblicità degni di nota è sufficiente spostarsi di pochi kilometri: qualche mese fa anche Lego ha realizzato una campagna ispirandosi alle più famose opere d’arte della storia, sei quadri sono stati ricostruiti e reinterpretati con i famosi mattoncini colorati
. Bisogna ammettere però che pioniera di queste sperimentazioni è stata Adidas, che ha scomodato la Cappella Sistina di Michelangelo in occasione dei mondiali di calcio 2006 in Germania, trasformando il soffitto della stazione centrale di Colonia in un finto affresco dove gli apostoli e le storie di Mosè furono sostituite da campioni di calcio in azione.
In Italia, memorabile fu la Gioconda boccolosa rivisitata da Annamaria Testa per Ferrarelle.Certo il caso di Ikea rimane unico: è la prima volta che una pubblicità sembra restituire agli oggetti il proprio ruolo, reinvestendoli di quella realtà di cui l’arte li aveva spogliati, una vendetta per i tavoli eat-art di Daniel Spoerri o il discusso letto sfatto di Tracey Emin.
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